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Karate: recensione di Make It Fit

Dopo vent'anni di assenza, i Karate tornano a riaccendere l'entusiasmo dei fan di vecchia data con il nuovo album-reunion Make It Fit, dimostrando ancora una volta di saper catturare la scintilla retrò dell'indie-rock americano.

Karate

Make It Fit

(Numero Group)

indie-rock, jazz slowcore, post-rock, folk elettroacustico, jingle jangle, post-punk, blues, west-coast sound, rhythm’n’blues

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“Numeri che volano via dalla pagina del calendario, il mondo sta girando, posso sentirlo allontanarsi da me”.

Non è semplice recuperare un’assenza lunga due decenni, eppure, a distanza di vent’anni dall’ultimo disco di inediti Pockets, come se tutto quel tempo si fosse magicamente cristallizzato, i bostoniani Karate tornano a riaccendere l’entusiasmo dei fan di vecchia data (e non solo) con il nuovo album-reunion Make It Fit, pubblicato per la Numero Group e anticipato dall’uscita dei singoli Defendants e Silence, Sound.

Con Make It Fit, settimo lavoro in studio, la storica band del Massachusetts – capitanata dal chitarrista e cantante Geoff Farina, figura fondamentale per lo sviluppo della cultura DIY statunitense, assieme ai sodali Gavin McCarthy e Jeff Godard – riavvolge il nastro dei ricordi e riprende il filo di un discorso solamente interrotto, riaprendo cassetti impolverati e passando attraverso il bagaglio di esperienze, sia positive che negative, accumulate durante tutti questi anni di esilio volontario.

Un lungo periodo di pausa, e di crescita personale, che ha permesso ai Karate, nonostante la disillusione dell’età, di alimentare nuovamente la fiamma vibrante dell’ispirazione, sottoponendo un’analisi critica, quand’anche ironica, nei confronti di un’umanità sempre più grottesca, individualista, avida (“you are the gulls just chasing trash, bound by greed”) e infarcita di fake news ed emozioni on demand (“remember candor and compassion? Today anomie is the trend, and folly is the fashion”).

Cercando di osservare a debita distanza, e con la giusta dose di cinismo, le dinamiche della vita in divenire (“we both learned long ago what the price for vanity and pith […] I’m satisfied to have someone to run with”), in quello spazio liminale tra la necessità di doversi continuamente adattare ai cambiamenti del mondo, la triste consapevolezza della situazione adulta (“stopped following my dreams, they only led to sorrow“) e il tempo che passa inesorabile e non fa sconti a nessuno (“numbers flying off the calendar page, the world is turning and i can feel it turning away from me”), i Karate restano in linea con la loro identità calligrafica, nel modo di ricamare il proprio immaginario sonoro e comunicativo, senza prescindere da coerenza e libertà d’espressione.

Anche se in questo nuovo capitolo discografico, a differenza dei precedenti, si può notare come Geoff Farina e compagni mostrino maggior propensione verso un folk cantautorale dal gusto radiofonico e altresì una scrittura più lineare e delicata, che probabilmente risente della sensibilità dell’oggi.

Scorrendo, dunque, tra le immagini e i suoni che compongono le dieci tracce di Make It Fit, affiora come certe asprezze angolari del passato siano state leggermente smussate, addolcite, per lasciarsi andare al mood naturale delle cose, vedi le morbide e cullanti note che accompagnano una certa vena malinconica dall’anima blues (Liminal). Così, con una perfetta combinazione fra passaggi strumentali e timbrica vocale, e seguendo una direzione emozionale più sincera possibile, i Karate dimostrano ancora una volta di essere cintura nera nel saper catturare la scintilla retrò dell’indie-rock americano.

Un’attitudine che ritrova vigore nella consueta e virtuosa corrispondenza tra cifre stilistiche eterogenee: si va da un coinvolgente rhythm’n’blues seventies di influenza Thin Lizzy (Defendants) al roots-reggae rockettaro dei Joe Strummer & The Mescaleros (Bleach The Scenes, Cannibals), passando per il rock tagliente e stralunato a metà tra Clash e Television di Rattle The Pipes (“replenish the stash, remember The Clash”).

Ci sono poi l’intensità del rock’n’roll più street-punk-oriented (People Ain’t Folk) che fraseggia con stranianti luccicanze post-rock di scuola American Football e ritmiche nostalgiche di west-coastiana memoria, a cui si aggiungono sinuose atmosfere funk-jazz blueseggianti di rimando Style Council (Around The Dial), fino a cogliere l’essenza più profonda della release, tanto nell’intima e sentimentale quiete slowcore di Fall To Grace, quanto nell’epilogo riflessivo e notturno di Silence, Sound.

Insomma, ne è valsa la pena attendere tanto da questa rentrée? Oppure Make It Fit è semplicemente la riprova che i ritorni sulla lunghissima distanza non sono altro che il solito pretesto per ingannare il vuoto musicale che ci circonda.

I tempi cambiano, la gente cambia, e lo spirito collettivo di una volta sembra essersi disperso tra le insegne luminose di una società devastata dal capitalismo e dal consumismo. Eppure, nonostante tutto, i Karate portano avanti con orgoglio la causa di chi, all’inizio degli anni 90, veniva considerato “impresentabile”. Ma lo fanno alla loro maniera, come sempre, con la virtù della pazienza che abbraccia il premio dell’attesa. Dai che anche questa volta ci adatteremo: faremo in modo che funzioni.

facebook/karate

Ascolta l’album su Bandcamp

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