Stella Diana: recensione di Nothing To Expect

Con il nuovo album Nothing To Expect, la band partenopea Stella Diana rievoca le linee guida spirituali e somatiche della musica dark e le atmosfere oniriche della corrente shoegaze.

Stella Diana

Nothing To Expect

(Vipchoyo/A State of Flux Records)

shoegaze, darkwave, post-rock, slowcore

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stella-diana-Nothing To Expect-recensioneA quattro anni di distanza dal precedente album 57, la band darkwave partenopea Stella Diana manda alle stampe il suo nuovo lavoro in studio intitolato Nothing To Expect, edito per Vipchoyo/A State of Flux Records e anticipato dall’uscita del singolo Sleepless Girl.

Già attivi e conosciuti sia sulla scena underground tricolore che oltreconfine, gli Stella Diana (collettivo formatosi nel 1998 a Napoli e composto da Dario Torre alla voce e chitarre, Giacomo Salzano al basso e Giulio Grasso alla batteria) confermano quella che è ormai la loro direzione artistica, ripercorrendo, con ossequiosa reverenza e sforzo anacronistico, le incisioni spirituali e somatiche che penetrano nei solchi della musica dark e nelle screpolature della corrente di derivazione shoegaze.

Muovendosi intorno alla cifra stilistica di un macro-genere dalle coordinate ben definite e poi dilatate nei tempo, la formazione campana, attraverso le nove tracce di Nothing To Expect, riesce a (ri)produrre un wall of sound distorto, ossessivo e tormentato, coniugando ritmiche cadenzate, sulfuree e ipnotiche su cui aleggia una coltre atmosferica dalla densità fuligginosa, enigmatica e onirica, le cui trame cupe e ieratiche riconducono alla lunga onda di quel neologismo musicale cristallizzato tra gli anni ’80 e ’90, che rimanda ai The Cure di Faith e Pornography, passando per Depeche Mode e Jesus and Mary Chain, fino alle sponde dei My Bloody Valentine e Slowdive.

Un sentiero rischioso e impervio quello dell’emulazione, in cui è verosimile scivolare sul terreno dell’eccessivo manierismo, nella parodia di qualcos’altro o di se stessi. Di fatto, gli Stella Diana riescono a radunare sotto lo stesso drappo tutti gli stereotipi del macro-genere dark, sia dal versante strumentale che dall’angolazione estetica: stridenti e argentei fraseggi di chitarra in feedback, ritmi tribaleggianti di tom-tom, basso cavernoso e pulsante, un cantato baritonale, lamentoso, struggente, etereo e pregno di effetti (forse troppi?), e una fisionomia minimalista (già nell’artwork), funerea, emaciata e dall’impatto glam sepolcrale.

Senza dimenticare pennellate estemporanee di psichedelia post-rock (Regulus) e un profondo interesse per il rapporto tra uomo e mondo ultraterreno, manifestando reticenza nei confronti di tutto ciò che rappresenta il qui e ora.

 

Un trim sonoro, narcotico e monocorde, in cui liriche ermetiche e tessiture rarefatte, malinconiche e avvolgenti, conferiscono quel tocco d’enfasi alla sfera epidermica di Nothing To Expect, aderendo al magico simbolismo del mese di febbraio e legandosi al principio di purificazione e rinascita, quasi a scuotersi da quel torpore emotivo e statico dell’io interiore che funge da filo conduttore dell’intera opera.

Mettendo in rilievo uno stato di decadenza pastorizzata (come direbbe Lester Bangs) e un desiderio represso di evasione dalle alienanti finestre della contemporaneità, gli Stella Diana provano a mitigare quella sensazione di desolazione che permea i vorticosi abissi emozionali, destreggiandosi tra caos e ordine, romanticismo e sconforto, tangibilità e trascendenza, rumore e silenzio, luce e oscurità, nella velleità di consolarsi con il pensiero dei vecchi ricordi, dei sentimenti sbiaditi (A New Hope), cercando di dare una forma a quelle curve introspettive che guidano al rapporto simbiotico e conflittuale degli opposti.

Insinuandosi con carezzevole arrendevolezza dentro quelle distanze che sembrano incolmabili (Distance), al di là degli sguardi, delle parole e della desolazione ancestrale dell’attualità, gli Stella Diana prendono coscienza di un mal di vivere che sembra ormai invincibile e irreversibile. Meglio lasciare che il tempo scorra e che la natura segua il suo corso, rifugiandosi nella simbologia di un ruscello (In Abeyance), nella speranza di un cambiamento, di un pre e post qualcosa, ricominciando proprio dalla “forza di non chiedere nulla per non aspettarsi nulla”, e di conseguenza dal non dipendere da niente. Senza nulla a pretendere.

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