Pearl Jam: recensione di Dark Matter

Alti e bassi per Dark Matter, il ritorno sulle scene dei Pearl Jam. Il bilancio? Scopriamolo insieme.

Pearl Jam

Dark Matter

(Monkeywrench records/Republic Records)

rock

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Sul nuovo disco dei Pearl Jam – Dark Matter – si è scritto abbastanza e detto parecchio ancora prima della sua reale uscita. Sono stati gli stessi membri della band a cacciare l’argomento, esaltando la produzione dell’emergente Andy Watt e rimembrando i tempi d’oro con continui paragoni verso le opere che li resero immortali nei primi anni novanta.

Con un menù così apparentemente prelibato, era normale sedersi a tavola in attesa di essere serviti con la speranza che alle premesse potesse fare seguito quanto dichiarato dal gruppo in sede di vigilia. E allora togliamoci subito il dente.

I Pearl Jam sono ritornati al passato? La risposta è NO.

I Pearl Jam hanno realizzato un disco che ha l’attitudine di un Vs, di un Vitalogy o anche di un No Code? La risposta è rafforzativa: NO al quadrato!

E allora di che disco si tratta? Ecco, la domanda è lecita porsela, perché qui rientriamo nel campo di quei lavori che in molti criticano (a volte senza dare delle spiegazioni logiche), ma che sono più che buoni e più che piacevoli: parliamo di album quali l’omonimo del 2006, di Yield, di Binaural e Riot Act.

La band, dunque, si muove su questi territori e lo fa ritrovando un’ispirazione (la fan base talebana dei Pearl Jam può dire quello che vuole affermando il contrario) che era, oramai, andata in soffitta da tempo immemore.

E allora proviamo ad addentrarci nella descrizione di un disco che, volenti o nolenti, farà parlare di sé nel bene e nel male.

Le cose migliori vengono fuori quando meno te lo aspetti, soprattutto se pensi al loro passato d’oro, ma che tutto sommato sono nell’ordine delle idee se ci si attiene al presente: Won’t Tell, ad esempio, si presenta come un gioiellino pop che potrebbe stare di fianco ad una Wishlist e non abbiamo difficoltà a pensare che si tramuterà un classico della band quando verrà eseguito dal vivo.

Un altro pezzo molto interessante, dove McCready si ricorda di essere quello di November Hotel (Mad Season) o di Reach Down (Temple Of The Dog), è decisamente Waiting For Stevie che, però, ha un piccolo peccato: pare essere la continuazione di In Hiding, brano stupendo scritto da Stone Gossard ai tempi di Yield. Vabbè, sono quisquiglie che, alla fine, si ingrandiscono con il raffronto con il passato quando ti passa tra le mani una gemma come Upper Hand che è davvero la gemella siamese di Nothing As It Seems.

Le soluzioni melodiche e chitarristiche sono quelle (non prendiamoci in giro affermando il contrario) e ci riportano alla scrittura psichedelica che da sempre ha accompagnato Jeff Ament quando ha deciso di regalare qualche perla ai suoi compagni. Le derivazioni, invece, che li affiancano ai solidi rockers a stelle e strisce, chiaramente, non mancano: pensiamo a Wreckage, canzone bellissima se uno in vita sua non ha mai ascoltato Tom Petty.

Il problema, almeno nostro, è che conosciamo a fondo la discografia del biondo chitarrista degli Heartbreakers e sappiamo bene che qui ci sono tutte le sue caratteristiche che lo hanno reso celebre nel mondo e che sono state perfettamente rievocate dai Pearl Jam, a partire dai cori per, poi, terminare al sound delle chitarre. Idem si potrebbe dire per la buona Got To Give, dove il Boss e gli Who di By Numbers vanno tranquillamente a braccetto.

Un episodio evitabile lo abbiamo? Assolutamente sì e risponde esclusivamente al nome di Something Special che è puro Vedder solista e che non può più essere accettato, perché di canzoni così anonime l’ultima parte della discografia dei cinque di Seattle né è piena.

Il primo singolo, Dark Matter, ha un riff che è identico a quello usato da Joan Jett in I Love Rock’n’Roll, ma questo è il male minore. Da un brano che dovrebbe essere l’introduzione a un disco così atteso ci saremmo aspettati qualcosa di meglio, anche se, ad essere sinceri, più lo si ascolta e più lo si canticchia. Sarà, ma tirando le somme rimane il dubbio che qualcosa non ti convince.

Va leggermente meglio con gli altri pezzi veloci. Qui è opportuno aprire un sotto-capitolo nel capitolo. Chi pensa di trovare le nuove Go, Blood o Spin The Black Circle può chiaramente accomodarsi alle porte più vicine a lui. Non te lo puoi aspettare più da gente di sessanta anni delle soluzioni di questo tipo. Però, ci saremmo immaginati qualcosa che andasse a toccare canzoni, tipo le più spinte, presenti nell’omonimo del 2006 (una cosa alla Comatose) o in Riot Act.

Il problema è che non ci rassegniamo al tempo che passa e allora quando si presentano dinnanzi alle tue orecchie Running, React – Respond o Scared Of Fear (tutte gradevoli, per carità), sbatti il piedino, te le fai piacere come quando mangi una minestra riscaldata perché hai fame e poi passi avanti, perché sai in cuor tuo che il ristorante dove stai banchettando era capace, un tempo neanche troppo lontano, di fare leggermente meglio.

Uno squarcio di arcobaleno, comunque, non manca ed è dato dalla conclusiva e sognante Setting Sun (voto 9) che ci rincuora e ci fa risalire tanta di quella rabbia in corpo, perché se ci si mettono i Pearl Jam sono ancora in grado di colpire e affondare chiunque.

Un’ultima considerazione va spesa sui singoli membri. Se Matt Cameron continua ad essere un batterista totalmente diverso da quello ammirato con i Soundgarden, gli altri fanno il loro lavoro con grande dignità, in particolar modo Mike McCready che rimane l’anima più rock della band. Un discorso a parte merita Eddie Vedder. Ci sembra, ma possiamo sbagliare, che si sia appiattito e che canti alla stessa maniera dall’inizio alla fine. Sarà pregiudizio verso di lui? Non crediamo proprio. Probabilmente Eddie è uno di quelli che ha speso le sue cartucce all’inizio e che ora vive di rendita come gran parte dei colleghi che fanno il suo stesso mestiere e che hanno segnato le proprie epoche.

Alla fine della giostra possiamo collocare Dark Matter subito dopo l’Avocado in un’ipotetica tier list. Un passo in avanti rispetto agli anonimi Backspacer e Lightining Bolt e cinque in più rispetto all’imbarazzante Gigaton, ma non è che ci volesse chissà cosa per scavalcare nella scala dei valori questi dischi.

 

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Francesco Brunale
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