Marquez: recensione de I Vinti

Come pesanti fardelli camusiani da portare in salita, sulle spalle: così, Marquez racconta lo stato involutivo e ripetitivo della società moderna, sempre più deforme, apatica ed inespressiva.

Marquez

I Vinti

(Bluscuro)

canzone d’autore, synth wave, folk acustico

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recensione-marquez-i-vinti-cdTroppo vecchi per fare gli acrobati, ma troppi giovani per morire. Intrappolati nel dimenticatoio di un presente confuso e senza via d’uscita, sempre più invisibili ed in equilibrio precario su fili sospesi tra il rimpianto del passato e l’incertezza del futuro.

Si apre con questa metafora esistenziale, di natura circense e dal chiaro impatto intimista, il nuovo album del compositore cesenate Andrea Comandini in arte Marquez, intitolato I Vinti e rilasciato per l’etichetta Bluscuro.

Dieci tracce inedite e cariche di pathos lirico, mediante le quali Marquez (cantautore in attività sin dai primi anni ’90 e con alle spalle collaborazioni prestigiose, tra cui Gianni Maroccolo, Ivan Graziani, Omar Pedrini), giunto al sesto capitolo della sua carriera discografica ed accompagnato per l’occasione da Michele Bertoni (synth), Fabio Ricci (basso), Marcello Nori (batteria) e Sara Castiglia (pianoforte), decanta la sua prospettiva poetica, desolante e rassegnata del “ciclo dei vinti” di estrazione verghiana.

Una visione personale, quella di Andrea Comandini, filtrata attraverso la lente opaca del disincanto e vissuta nei paesaggi emozionali ed effimeri della contemporaneità, in cui ciascun singolo individuo, condannato ad un destino di solitudine a prescindere dal proprio status sociale, è diventato vittima e carnefice delle proprie azioni, perennemente in balia delle proprie fragili apatie quotidiane e dell’imprevedibilità del vento.

Come pesanti fardelli camusiani da portare in salita, sulle spalle. Così, Marquez racconta lo stato involutivo e ripetitivo della società moderna, sempre più deforme, apatica ed inespressiva, aprendosi ad un piano di lettura bidimensionale: come metafora di penitenza per l’eternità, da una parte, e quale simbolo di resistenza per superare i propri limiti e ritrovarsi, dall’altra.

Esseri umani inghiottiti dalla centrifuga emo-virtuale del progresso tecnologico, coinvolti nell’incessante lotta per i bisogni materiali e nella continua contrapposizione di forze, tra l’istinto di sopravvivenza, l’insaziabile brama di potere, l’incedere inesorabile, infinito e circolare del tempo terrestre, le forme evanescenti degli orizzonti, il conflitto sempiterno con la natura e quelle distanze interpersonali che sembrano incolmabili.

I dieci brani conferiscono alla release una fisionomia letteraria e sonora comune, manifestando una imperturbabile simbiosi tra le immagini evocative, la timbrica profonda e le traiettorie liriche siberiane espresse dal cantautore romagnolo.

La struttura strumentale de I Vinti poggia su uno spartito cardio beat robotico e di memoria cyber synth, che da un lato scandisce tempi dilatati, sinfonici, distorti, inquieti e solfurei (alla Battiato e Bluvertigo, grosso modo), e dall’altro accarezza le atmosfere introspettive, oniriche ed invernali che riecheggiano in certe sofisticate ballate folk-acustiche nordeuropee, facendosi cullare da onde elettroemotive remote che sfruttano la fertilità del passato per compensare l’aridità del presente, tra risonanze crepuscolari ed intense sensazioni malinconiche.

“Se solo fossimo stati diversi e più forti del nostro fallimento”. E invece non ci resta che contemplare tutto quello che non saremo mai più, di fronte alla menzogna riflessa nei nostri specchi.

Ci siamo accorti che non esistiamo affatto, come quelle comparse che restano in piedi sull’argine dei propri insuccessi, nello smarrimento dei giorni tutti uguali, nella confusione delle nostre storie collettive e costretti ad imparare a convivere con l’assurdo della vita.

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