Demagò: recensione di Ferite

La seconda mini-opera dei grifoni Demagó si proietta a piè pari nel vecchio canovaccio alternative rock italiano degli anni '90, a cui s'aggiungono percorsi sonori emo-power.

Demagò

Ferite

(R)esisto

emo-power, rock cantautorale, folk-rock

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Demagò Ferite recensioneA distanza di sei anni dal debutto discografico con il disco Linea di Confine, la band emo-power umbra Demagò apre il 2021 con la pubblicazione dell’EP Ferite, nuovo lavoro discografico edito per (R)esisto ed anticipato dall’uscita del singolo Il Mio Demone.

Il quintetto originario di Città di Castello, in provincia di Perugia, muovendosi tra quei demoni del passato ancora incollati al presente (Il Mio Demone) e gli abissi necessari a raggiungere la redenzione dell’anima, sembra aver assimilato e orientato le complessità del proprio vissuto quotidiano ricavandone una forma di songwriting sintattico più maturo, sia dal punto di vista testuale che strumentale, rifiutando la dicotomia tra gli opposti e tenendosi in equilibrio costante su quella vecchia linea di confine emozionale degli esordi, tra delicatezza e aggressività, tra luci e oscurità, tra istinto e mestiere.

Le quattro tracce dell’EP si manifestano quale coscienza critica dei tempi, a mo’ di termometro etico-emotivo della contemporaneità, attraverso un linguaggio che, adeguato alle circostanze della nostra epoca, evidenzia gli anni trascorsi nel segno della precarietà e dei contratti a progetto, a breve e lungo termine, l’instabilità e il regresso morale della condizione umana (con tutte le sue vacuità e le sue contraddizioni), le ombre della noia e la crescente difficoltà nel raggiungere certi orizzonti, divenuti sempre più fluidi, liquidi e distopici.

La sensibilità narrativa e fonica dei Demagó si materializza mediante uno spartito dalle tonalità agrodolci, malinconiche e mediterranee, alternando momenti strumentali freschi, vivaci e sostenuti a ballad folk rock dal carattere rurale e onirico in grado di regalare riff e ritornelli potenzialmente appetibili per le radio, senza però rinunciare a un filo di distorsione, giusto per rievocare e dare portanza a quel sentimento di rabbia mista a disillusione.

La seconda mini-opera dei grifoni Demagó si proietta, dunque, a piè pari, con uno sguardo retrò futurista, nel vecchio canovaccio alternative rock italiano degli anni Novanta, Negrita su tutti, al quale si vanno ad aggiungere percorsi sonori emo-power più attuali come quelli battuti dai conterranei Fast Animals and Slow Kids, Il Corpo Docenti ed Elephant Brain.

In conclusione, se volessimo allargare le maglie tematiche di questa release, partendo dal presupposto che le ferite lasciano un segno, a prescindere da qualsiasi latitudine, potremmo concederci una chiave di lettura filosofica e più universale, facendo un parallelismo tra pensiero occidentale e orientale.

Da una parte il mondo occidentale, nel quale, per cultura, si fa fatica ad accettare le proprie crepe, tanto del corpo quanto dell’anima: ferite, spaccature e fratture sono percepiti come fragilità e imperfezioni, spesso additati come colpe.

Dall’altra il mondo orientale, con l’espressione della tecnica giapponese del kintsugi, grazie alla quale si tende, invece, a valorizzare le ferite, prendendosi cura di loro con cura e pazienza, lentamente, cercando di esaltare la storia della loro ricostruzione, della loro ricomposizione, al fine di renderle più preziose, sia esteticamente che interiormente.

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