Daughter: recensione di Stereo Mind Game

Assonanze elettive con psichedelia shoegaze, penombra dub e certo dream-folk sintetico: questi sono soltanto alcuni degli ingredienti sonori presenti in Stereo Mind Game, il nuovo album dei londinesi Daughter.

Daughter

Stereo Mind Game

(4AD)

dream folk, elettro-ambient, shoegaze, new wave, chill-out, emo-folk

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A distanza di cinque anni da un disco di transizione come Music from Before The Storm, scritto come soundtrack del videogioco Life Is Strange: Before The Storm, e ormai a dieci dall’esordio discografico con If You Leave, la band inglese Daughter pubblica il suo quarto album intitolato Stereo Mind Game, edito per 4AD e anticipato dall’uscita dei singoli Be On Your Way, Party e Swim Back.

Con la realizzazione di Stereo Mind Game, la formazione londinese – composta da Elena Tonra (voce, chitarra, basso, pianoforte), Igor Haefeli (chitarra, basso, tastiere) e Remi Aguilella (batteria, percussioni) – oltre a consolidare la propria sensibilità cantautorale dall’impronta melodica e autobiografica, rivela una costruzione di musicalità intime e toccanti in costante equilibrio tra sogno e realtà, guardando al tempo che sfugge, inafferrabile come sabbia finissima in una clessidra, e focalizzandosi, per quanto concerne l’aspetto testuale, sullo smarrimento emotivo dei nostri giorni, l’intorpidimento delle connessioni interpersonali e le fatiche gestionali di quelle distanze sia fisiche sia cerebrali che, in parte, mostrano ancora gli strascichi prodotti dai due anni di isolamento per la pandemia.

Dolore e sofferenza sono elementi imprescindibili della nostra esistenza, dell’amore, a cui nessuno può sottrarsi. Esiste, però, un rapporto di corrispondenze tra presenza e rinunce che i Daughter, dietro una coinvolgente e agrodolce intimità epidermica, provano a bilanciare liberando un mood leggermente meno cupo rispetto ai precedenti lavori: “uno spleen più sereno”, come direbbe Andrea Liuzza dell’etichetta Beautiful Losers.

Ritraendosi e dilatandosi a seconda della luce che le attraversa, e deviando dalle illusioni anestetizzanti della contemporaneità, le tredici canzoni di Stereo Mind Game condensano un caleidoscopio di influenze sonore e scenografiche dal piumaggio cangiante e dal carattere confidenziale – quando nelle atmosfere umbratili dei cambiamenti autunnali quando in distensive sfumature primaverili – dove ogni elemento acustico e visuale viene utilizzato per scaldare il cuore e accarezzare stati d’animo come disillusione e malinconia, affidandosi ad echi bucolici di affreschi dream-folk e alle varianti uggiose della componente elettronica (rievocando un tocco calligrafico ascrivibile a realtà come Slowdive, Portishead, Trentemøller e Beach Fossils), e soprattutto al flow morbido, etereo, suadente, tremolante, sospirato e sussurrato di Elena Tonra.

L’essenza tematica di Stereo Mind Game si può racchiudere nell’immagine di quel fiore appassito raffigurato nell’artwork, quasi a voler simboleggiare quella bellezza passeggera e ormai sfiorita che allude all’estate della nostra vita – della quale non restano che sigarette spente, come direbbero i Baustelle – e che cerchiamo quantomeno di custodire in angoli preziosi della memoria, come fosse un segnalibro artigianale pressato tra le pagine ingiallite del nostro vissuto. Come cantava Fabrizio De André, “l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza, e quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole di un aprile ormai lontano, li rimpiangerai”.

Così, nel tentativo di dare un senso ai molteplici enigmi della vita, oppure mirando semplicemente a una tregua interiore tra le amarezze del presente e la nostalgia del passato, tra ragione e passione, i Daughter riescono a cucire trame evocative e oniriche su argomenti delicati come il distacco da un affetto: ovvero capire quand’è opportuno lasciare andare un amore prima che quel sentimento degeneri e si esprima nel suo contrario, nel modo in cui l’esperienza acquisita sacrifica per sempre l’innocenza di luoghi remoti non più accessibili, mentre l’avvenire assume sempre più le sembianze di un sogno dai contorni indefiniti e sfocati.

Per ciò che invece riguarda lo sviluppo strumentale di Stereo Mind Game, al suo interno troviamo un intreccio di impeti controllati che prendono forma tra magnetismo, riverberazioni, stratificazioni sonore e atmosfere dense, magiche, inquiete e avvolgenti come un caldo abbraccio. Brani in cui si alternano ritmiche con linee di basso rotonde e iper-pulsanti dagli echi new wave (Party, Swim Back), composizioni orchestrali dall’ampiezza maestosa e sinfonica (Be On Your Way), assonanze elettive con psichedelia shoegaze, penombra dub e certo dream-folk sintetico (To Rage, Future Lover, Isolation), loop di archi e soundscapes elettronici a conferire maggiore profondità espressiva alla materia emotiva (Wish I Could Cross The Sea) e luccicanti vibrazioni post-rock che scorrono con grazia sulle corde della chitarra, immaginando di immergersi nell’habitat fiabesco di foreste scandinave.

Stereo Mind Game rappresenta un invito analitico a intraprendere un viaggio dentro se stessi, a sopravvivere e ricostruirsi, a perdersi per ritrovarsi, nonostante gli inevitabili imprevisti della vita (“the odds are stacked against our love”). Ostaggi di questa terra ferma e della nostra condizione di permanenza interstiziale, non possiamo far altro che osservare e contemplare quella sottile linea di orizzonte che delimita il mare dal cielo, il sogno dalla realtà. Se solo potessimo fare come Mosè: aprire quelle acque e passarci in mezzo.

Eppure, sappiamo che in fondo la sostanza di tutte le cose è proprio lì, nel giorno che lentamente cede il passo al crepuscolo, come un’eco dolcemente distorta che lascia spazio ai ricordi, per poi svanire come bolle nell’aria, come schiuma di risacca nell’oceano del tutto e del niente: “find a hole in the ocean, swim backwards”.

 

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