Velvetians: Plastic Glam

Tirate fuori lustrini e boa di struzzo: il glam è risorto, e questa volta non solo al cinema. I Velvetians sono già stati accolti a braccia aperte in UK. E da noi?

Velvetians

Plastic Glam

(Cd, Lottarox)

indie, glam-rock

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Velvetians: Plastic GlamNel 1998 esce nelle sale cinematografiche Velvet Goldmine, film culto per una generazione (e non solo una) di appassionati di musica, che vantava nel cast e nella colonna sonora personaggi del calibro di Thom York dei Radiohead e Michael Stipe dei R.E.M. Beh, i nostalgici del genere apprezzeranno Plastic Glam, album di debutto dei Velvetians, italianissimi a discapito delle influenze, registrato in Umbria, ma già esportato nella cara vecchia Inghilterra, dove ha ricevuto un caloroso benvenuto.

Trovo molto calzante il commento ricevuto da Londonrocks “Velvetians are like the Smiths having sex with the New York Dolls, but with better clothes and better looking” (I Velvetians sono come gli Smiths che fanno sesso con i New York Dolls, solo meglio vestiti e con un aspetto più gradevole). C’è un gustoso mix di influenze nella musica di questo terzetto, che riesce tranquillamente a portare in scena un rock molto contemporaneo alla The Killers, per poi ricadere nella spirale glam ancora viva nei pezzi dei Placebo.

Velvetians n.1 apre quest’album con echi decisamente rock: c’è Beck che salta la corda con i Cure, i primi Arctic Monkeys che giocano a palla con i Franz Ferdinand, in un sound fortemente English. Attenzione: English, non British, che irrimediabilmente ci riporterebbe alla mente Oasis e Blur. Questa è la Londra dei Clash e dei T-Rex, che strizza l’occhio agli anni ’70 quando lustrini ed eccessi pervasero le strade della città.

Con Black River Dolls entriamo definitivamente in questo girone suadente e vintage: sembra quasi di essere nel bel mezzo di The Rocky Horror Picture Show, in versione decisamente meno fetish. Gamla Glam ne è l’emblema: qui il “Satellite of love” di Lou Reed si trasforma in un “Satellite of glam”. Cavalcando l’onda ci imbattiamo in It hurts you, che di Common People dei Pulp – anch’essi gruppo icona della musica inglese anni ’90 il cui stile dandy sarebbe piaciuto persino a Oscar Wilde – sembra la sorella gemella in chiave ska.

Anche se è innegabile che nelle sonorità della band un margine di miglioramento ci sia, quest’opera prima dei Velvetians vanta un sound facilmente esportabile, sicuramente più d’impatto oltremanica che in Italia. Consigliato per chi pensa che la versione di 20th century boy dei Placebo sia persino meglio dell’originale…

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Simona Fusetta
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