Walden Waltz: Eleven Sons

Gli aretini Walden Waltz pubblicano Eleven sons. Ascoltando quest’album, tutto ti aspetteresti meno che si tratti a) di un’opera prima e b) di una band italiana. Quando l’apparenza inganna (per fortuna)

Walden Waltz

Eleven sons

(Santeria/Audioglobe)

psycho-rock, indie, folk

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Walden Waltz- Eleven SonsI Walden Waltz sono una band aretina formatasi nel 2011 e sviluppatasi come collettivo musicale-creativo durante gli anni seguenti. E fin qui tutto nella norma. Peccato che il sound che fuoriesce dagli auricolari del mio iPod lasci pensare a tutto fuorché a un gruppo italiano. Immaginate poi il mio crescente stupore nell’apprendere, grazie alle note biografiche, che si tratta del loro disco d’esordio. Troppa grazia. Una di quelle cose che non capitano spesso, ma quando capitano lasciano il segno.

Eleven sons è un LP che suona tanto internazionale non solo nelle influenze, ma anche per la gavetta che la band si è fatta on the road oltreoceano. Non stupisce infatti che il loro demo abbia attirato l’attenzione di affermati musicisti e produttori, che li hanno incoraggiati ad andare avanti e aiutati a organizzare un tour della East Coast. In seguito a mirabolanti avventure, concorsi vinti e una serie di esibizioni sulla West Coast, producono questi undici brani, undici figli per l’appunto, frutto di una ricerca della sintesi tra opposti che costantemente si attraggono e si respingono.

L’album si apre con So they say, un pop che contiene in se tutti gli elementi presenti nelle altre tracce. I Beatles, i cantautori americani degli anni ’60 e la psichedelia a cavallo degli anni ’70. Tutto questo combinando voci, chitarre, strumenti ad arco e a fiato. Feed your ignorance dà a tutto una sferzata decisamente rock, mentre Move your head sfodera una vena elettro-dark di rara bellezza. Con A and D e How long continuiamo la discesa verso gli inferi, con sonorità più cupe, ma che sul finale si aprono per permettere a Tiger e My old friend di creare il perfetto connubio tra vecchio e nuovo, tra strumenti tradizionali e macchine moderne.

Everywhere è, insieme a Dithyramb, uno dei brani più evocativi: senza bisogno di ricorrere alle parole, è in grado di ricreare immagini, luoghi, sensazioni. The fair and the hermit chiude l’album (e il cerchio) riprendendo quel sound folk tipicamente nordeuropeo già presente nelle sopracitate A and D e Dithyramb.

Cosa aggiungere ancora a questa rapida disamina di Eleven sons? Forse che è un album da ascoltare, perché è raro trovare tanta personalità in un’opera prima. Perché influenze britanniche e americane convivono in perfetta armonia, così come strumenti vecchi e nuovi, il folk e il rock, la psichedelia e la canzone d’autore. Ricordandoci il passato, senza sembrare nostalgici o privi di inventiva. Sentiremo ancora parlare dei Walden Waltz. E non solo in Italia, per nostra (e loro) fortuna.

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Simona Fusetta
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