Pj Harvey: recensione di I Inside the Old Years Dying

Con I Inside the Old Years Dying, l’intento di PJ Harvey è quello di mettere in musica quelli che sono i suoni della natura, creando così un’atmosfera inquietante quanto misteriosa e mistica.

Pj Harvey

I Inside the Old Years Dying

(Partisan records)

indie-folk, indie-rock

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Sette anni sono trascorsi dall’ultima pubblicazione di Pj Harvey. Anni in cui la sua assenza è stata percepita e sofferta da noi fans, per quanto in realtà Polly non è certo stata con le mani in mano. Si è cimentata infatti, oltre che nella partecipazione alla colonna sonora della serie Bad Sisters (con la cover Who By  the Fire, realizzata insieme a Tim Philips), nella pubblicazione della sua seconda opera poetica Orlam (in collaborazione con Don Patterson, poeta scozzese, edita nel 2022).

Un componimento letterario surrealista scritto in versi dialettali del Dorset; in cui passato, presente, realtà e finzione si mescolano dando vita ad un mondo parallelo che possa essere in grado di spiegare le atrocità e il caos di quello in cui viviamo.

I Inside the Old Years Dying, il suo decimo album, è stato composto e registrato in sole tre settimane, ma la sua gestazione è stata lunga; parte da una crisi identitaria dell’artista, che proprio negli ultimi anni aveva perso completamente la sua profonda connessione con la musica, parte da un voler ritornare alle sue origini e ricreare uno spazio di raccoglimento dove potersi rifugiare per rientrare in contatto con la sua intimità.

Negli ultimi due album – Let England Shake e The Hope Six demolition Project – ci aveva abituati ad affrontare temi socio-politici; questo lavoro invece è solo per lei.

È volutamente criptico, volutamente poco immediato, dannatamente spiazzante e non mostra una continuità con i lavori precedenti.

La sua cifra stilistica è sempre ben riconoscibile, ma complice anche la stesura del libro e l’immaginario nel quale si è calata negli ultimi anni, il voler esplorare composizioni di origine più folk (dove non mancano certo incursioni particolarmente sperimentali) è imperante, sia per dare spazio ai testi, i quali prendono spunto proprio da Orlam sia per creare una vera e propria rottura con quello che è stato il suo passato più prossimo; senza volerlo certo rinnegare, ma volendo dimostrare una voglia di crescita e di non rimanere attaccata a quelli che sono i suoi traguardi già raggiunti.

Con Parish e Flood i suoi compagni fidati, PJ crea ed improvvisa 12 tracce con un sound completamente inedito che a tratti potrebbe ricordare alcuni suoi trascorsi come negli episodi Lwonesome Tonight (dove Elvis potrebbe essere Dio o Gesù, inviato per conquistare la sua fiducia) e August, che mi hanno fatta tornare in mente le sonorità di White Chalck, oppure Noiseless noise, che invece ripercorre il mood dei suoi esordi .

Ma in realtà l’intento è quello di mettere in musica quelli che sono i suoni della natura, creando così un’atmosfera inquietante quanto misteriosa e mistica, e per spiegarlo secondo le parole dell’artista stessa: “è un lavoro che riguarda la ricerca di un significato e l’intensità del primo amore”.

La voce protagonista assoluta di tutte le tracce, rompe già il muro del silenzio partendo dal falsetto di Prayer at the Gate; qui una vulnerabile Polly, sorretta da una batteria scheletrica e suoni ambient, si prepara ad aprirsi al blues stridente di Autumn Term, dove sale tre gradini per l’inferno , accompagnata da uno scuolabus sulle colline.

Per poi tornare all’infanzia e alle radici con Seem I Am, dove il belato dell’agnello in sottofondo, ci fanno tornare in mente i paesaggi collinari del Dorset, così ben descritti in passato dal poeta Hardy.

I territori divengono più gotici e sinistri in the The Nether- edge e ancora più mutevoli nella title track, una sorta di terra di mezzo che si apre poi alle lande solitarie e minimali di All Souls.

Per poi arrivare ad evocare, insieme all’attore Ben Whishaw eccitati demoni e un Dio Caprino nella visionaria A Child’s Question July, e trovare più pace nelle campane di I Inside the Old I Dying.

Non è solo musica questa, non è solo il suo decimo album, è la realizzazione di un’opera complessa e geniale che mette insieme parole, immagini, visioni, riflessioni, sogni, permettendo alla PJ di oggi di comunicare con la bimba disincantata ed innocente del Dorset.

Potremmo definirlo il suo album della maturità?

In realtà non lo sappiamo, perché PJ è così mutevole è cosi vogliosa di esplorare la sua artisticità a 360 gradi e su più piani diversi, che anche in futuro potrebbe essere in grado di stupirci cambiando ancora le carte in tavola.

Intanto siamo felici di goderci questo meraviglioso lavoro, che pur essendo uscito in estate, ha tutte le tonalità delle stagioni fredde e sarà un eccellente compagno di viaggio che ci accompagnerà nei pomeriggi piovosi ed austeri.

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Simona Pietrucci
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