K i š a: recensione disco omonimo

I bolognesi Kiša al debutto discografico. L'eponimo album viaggia tra dilatazioni armoniche e profondità abissali tinte di nostalgia.

K i š a

s/t

(Unknown Pleasures Records)

dark americana, desert rock, alt rock

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“La pioggia mi riporta i pezzi dispersi degli amici, spinge in basso i voli troppo alti, dà lentezza alle fughe e chiude al di qua delle finestre finalmente il tempo”, così scriveva la poetessa Patrizia Cavalli, così i Kiša (pioggia in croato) introducono il loro affascinante debutto discografico su etichetta Unknown Pleasures.

Il progetto nasce nel 2019 grazie ai bassisti Daniel Bastijanić (Boo Boo Vibration, Holy Devilsa), Giuseppe Taibi (Two Moons, European Ghost) e Gianluca Modica (Bromance, OfeliaDorme, Letherdive), che arricchiscono le forme sonore e le profondità strutturali degli inizi con un songwriting oscuro e benedetto da un approccio multilingue, il sound rarefatto e a tratti brutale si trasforma così in un labirintico racconto, elegante e tortuoso.

L’aria che si respira all’interno dell’omonimo debut album è densa, garbatamente cupa, inquieta e suggestiva, le dilatazioni armoniche tipiche del desert rock si mescolano magistralmente alle suggestioni tex-mex, post-punk, goth rock, coldwave, drone fino a lambire i territori noise, l’ensemble di chitarre, basso e batteria, accompagnato da una forte componente elettronica, lega ogni passaggio alle liriche misurate, sincere come un haiku e intrise della dolce amarezza provata nel rincorrere tutto ciò che è stato e non è più.

E proprio al di qua delle finestre descritte dalla Cavalli dove il tempo si ferma lasciando il mondo fuori, dove tornano i ricordi e i volti di quanti hanno attraversato le nostre esistenze, che vedo cristallizzate le figure di questi illuminati musicisti capaci di creare un’ambientazione languida e ovattata dove solo la memoria regna.

Immagino un interminabile andito illuminato a fatica da mozziconi di candela sfociare in un salotto decadente oscurato da drappi rosso sangue, cornice perfetta per un sensuale quanto violento walzer rock, in questo remoto e nostalgico luogo dell’anima affiorano “tutti quegli attimi perduti nel tempo come lacrime nella pioggia” nel momento esatto in cui le visioni cerebrali di Lynch incontrano le fumose atmosfere laneganiane e le depressioni cosmiche di Re Inchiostro, complice la voce amabile e tormentata di Marcello Petruzzi.

Universo lontanissimo quello che i Kiša raccontano, talmente lontano da sembrare impenetrabile eppure così vicino da intimorire perfino gli animi più avvezzi alla ricerca interiore, nella stessa bolla eufonica si alternano demoni e spiriti celesti, delusioni e flebili speranze, consapevolezza e resa.

La coinvolgente successione emotiva vede splendere l’atarassia di Lonely sun, il dolore austero di Dama, il graffio delicato di Call it Love (dal basso sinuoso), la luccicante ipocondria di Atoms & Void, la morbidezza di Sailing Anthem, la purulenza caustica di Broken Glasses con un grande Cristiano Biondo (European Ghost) alla voce e la delicatezza di Desvelado sublimata dalle linee vocali di Francesca Bono che sfumando, si fondono alle trame dei synth.

I Kiša con la loro munifica aura mitteleuropea sconvolgono questa primavera tardiva e colmano il vuoto pneumatico delle italiche produzioni, Kiša è un disco avvolgente, intenso e appassionato, uno di quelli che farei suonare in eterno (al di qua delle già citate finestre), per arginare il mio tempo, fino alla fine.

https://www.facebook.com/kisatheband/

 

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