Human Colonies: recensione di Kintsukuroi

Riparare le imperfezioni causate dalle fratture dell'anima con suoni e atmosfere shoegaze e dream-noise: questo è il concept di Kintsukuroi, primo full-lenght degli Human Colonies.

Human Colonies

Kintsukuroi

(Shove Dive Records, Custom Made Music, Moquette Records)

shoegaze, sadcore, dream-rock, dream-wave, dark-wave, fuzz garage noise, post-punk

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A distanza di sei anni dall’esordio con l’EP Big Domino Vortex e dopo un’intensa attività live accanto a realtà internazionali come Alexander Tucker, Cloud Nothings e Night Beats, gli Human Colonies mandano alle stampe il loro primo full-lenght intitolato Kintsukuroi, edito per Shove Dive Records, Custom Made Music e Moquette Records e anticipato dall’uscita dei singoli Air 909 e WAWWA.

Il terzetto Human Colonies, formatosi a Bologna nel 2013 ma stanziato tra Mantova e la Valtellina (con Sara Telesca al basso e voce, Giuseppe Mazzoni alla chitarra e Pietro Bonaiti alla batteria e synth) continua ad alimentare e rievocare, con ossequiosa reverenza e sentimento anacronistico, quella formula calligrafica che riconduce alla lunga onda del macro genere new wave dark di matrice anglofona, assecondando tutte quelle derivazioni musicali – dallo shoegaze al dream-noise – che a loro volta, negli anni 80 e 90, colonizzarono prospettive emotive del tutto differenti, diventando, così, nuove oasi di riferimento per l’evoluzione del cosiddetto alternative rock.

Ispirandosi, da un lato, a figure chiave dei suddetti sottogeneri, come ad esempio Slowdive, Ride, My Bloody Valentine, Yo La Tengo, Dinosaur Jr. e Placebo (sentiero rischioso e impervio quello dell’emulazione), e dall’altro alla filosofia nipponica del Kintsukuroi, gli Human Colonies realizzano un concept tematico incentrato sulla bellezza delle cose rotte, rifacendosi a quella tecnica artigianale in grado di restaurare frammenti di ceramica dandogli un’estetica nuova, quand’anche più preziosa. Allo stesso modo, partendo dal presupposto che nella vita non c’è mai nulla di seriale e continuativo, esiste dunque la possibilità di riparare certe imperfezioni causate dalle fratture dell’anima, ripartendo da altre forme come potenziali opportunità di rinascita.

Le sette tracce di Kintsukuroi, intessute su liriche in inglese, si contorcono attorno a una spirale vertiginosa e febbricitante dai contorni sfocati e ombrosi, su cui aleggia una coltre atmosferica di densità plumbee e spettrali che, attraverso dilatazioni oniriche di drum machine, trovano sbocchi di respiro ossigenante, nonostante la componente melodica sia declinata più verso colorazioni oscure che luminose.

 

Un alveare assordante di correnti ronzanti che si muovono all’interno di una disturbante e dinamica enfasi elettrica generata da rumorose cascate di feedback (Glimpse), tra dissonanze ipnotiche, riverberi evanescenti e ribollenti amplificazioni fuzz-garage-psych (Kintsukuroi), mentre ritmiche sferraglianti e iper-pulsanti vigorie di basso si fondono a morbosità noise che galleggiano in acque lisergiche, finendo per riflettersi nelle malinconiche lucentezze smithsiane di Crushing Indigo e scivolando nell’epilogo liturgico e catartico di Quite Clean.

Pertanto, in un taglia e cuci di sensazioni epidermiche contrastanti e andando controcorrente rispetto all’asse convenzionale del music business moderno, gli Human Colonies assemblano, con fervore nostalgico, una sorta di crossover audiovisivo tra cultura occidentale e filosofia orientale, tra sfera emozionale e corporale, in cui il tempo si veste da strumento riparatore di cicatrici, da rehab in cui è possibile riconciliarsi con le proprie fragilità difensive. Sicuramente, più facile a dirsi.

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