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Giulia Impache: recensione di IN:titolo

Con IN:titolo, Giulia Impache costruisce un esordio destinato a chi non si accontenta, a chi vuole farsi affascinare e incuriosire, a chi cerca nella musica che gira intorno qualcuno che tenti sentieri meno battuti.

Giulia Impache

In: titolo

(Costello’s)

indie, pop, sperimentale

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Torinese, studi accademici estesi fino alla musicoterapia, una gamma di interessi che vanno dal Medioevo alla Sci-Fi passando per l’animazione giapponese, Giulia Impache si rivela con un esordio sorprendente, In: titolo.

Descrivere adeguatamente ciò che l’ascoltatore troverà nelle dieci tracce presenti non è così facile, e questo dovrebbe già suggerire qualcosa.

Partiamo proprio dal Medioevo, allora, dato che il disco è stato pensato un po’ come una raccolta di madrigali, non a caso i singoli pezzi vengono intitolati con le prime parole dei testi, come d’uso ai tempi.

Lo Sci-Fi e l’animazione, poi: e qui le cose si fanno più complicate: si potrebbe parlare di ballate crepuscolari, con una decisa componente onirica, se non fosse… se non fosse che… e qui veniamo al punto.

Perché la voce eterea di Giulia si staglia su paesaggi alieni: è come se i pezzi venissero trasmessi da una vecchia stazione radio, le cui frequenze venissero continuamente ‘disturbate’ da scariche elettriche, tempeste magnetiche, scricchiolii, come se altri suoni volessero farsi strada a spallate, come se una radio ricevesse le trasmissioni da un ‘altrove’ poco identificabile, da una dimensione leggermente discosta dalla realtà dell’ascoltatore.

C’è molto in questo di cinematografico, c’è parecchio di una certa animazione giapponese in cui le atmosfere si fanno sospese, in cui azioni all’apparenza banali sembrano suggerire altro.

IN:titolo è un disco in egual misura suonato nel senso tradizionale e ‘costruito’ in modo da apparire vagamente ‘fuori quadro’, come se si dovesse sempre girare una manopola per aggiustare la sintonia e che a ogni ascolto regala qualche particolare precedentemente sfuggito.

Un post-pop extraterrestre in cui sperimentazioni elettroniche si mescolano a sprazzi free jazz e rimandi alla musica antica.

L’esito può essere respingente, a tratti anche un filo disturbante nella sua irregolarità, tuttavia allo stesso tempo non si perde mai di vista il contatto con chi ascolta, arrivando anche a momenti di autentica dolcezza.

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Marcello Berlich
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