Anathema: intervista, live report

In occasione dell'ottima tappa romana della band, Rockshock incontra per voi gli Anathema. Che offrono una istantanea del loro presente, qualche anticipazione sui progetti in cantiere, e un live che colpisce al cuore

Anathema + Petter Carlsen + The Ocean

Roma, 12 novembre, Alpheus

live report

intervista

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Vincent CavanaghA sei mesi dall’uscita del loro ultimo lavoro, We’re Here Because We’re Here, gli Anathema sono nel pieno della seconda parte del loro tour.

Rockshock li ha incontrati, nella persona di Vincent Cavanagh, qualche ora prima della seconda delle quattro date previste in Italia, in una calda serata di novembre nel club romano che ospita la serata, ancora semivuoto ma fervente di attività pre-concerto.

Il sorridente e tranquillizzante cantante e chitarrista non è affatto avaro di anticipazioni e opinioni e ci racconta dov’è e dove sta andando la longeva band di Liverpool.

Rockshock. Il vostro ultimo album è uscito in maggio. Puoi raccontarci cosa è successo in questi ultimi mesi, come sono andati tour e promozione del disco?

Vincent Cavanagh. A maggio vivevo ancora a New York, ho vissuto lì per i primi sei mesi dell’anno, quindi ero veramente emozionato. Tornato in Europa, abbiamo immediatamente iniziato a suonare per un paio di show. Poi è iniziata la stagione dei festival: abbiamo partecipato a molti festival estivi. E abbiamo trascorso molto tempo provando, raffinando il sound, preparandoci a suonare l’intero album, in ordine, dall’inizio alla fine: perché questa volta sentivamo di aver fatto un album che volevamo suonare dal vivo nella sua completezza. Abbiamo iniziato a farlo già nella prima parte del tour – questo tour infatti è diviso in due parti, per un totale di qualcosa come 50 concerti. Ora siamo entrati nella seconda parte del tour, in Italia, e questa sera qui a Roma suoneremo appunto l’intero album dall’inizio alla fine. Quello che facciamo, in genere, è iniziare con i vecchi brani, per la prima ora, per poi dedicare la seconda parte del concerto al nuovo album. E devo dire che questa modalità funziona alla grande, quando attacchiamo con i nuovi pezzi il pubblico è già carico e pronto ad accoglierli.

Rockshock. Puoi dirci qualcosa sul vostro rapporto con i fans italiani? Avete ben quattro date in Italia…

Vincent Cavanagh. Sì, ieri eravamo a Bologna, domani saremo a Treviso, e poi a Milano. I fans in Italia sono stati sempre molto appassionati. E anche come persone, sono tra le più passionali d’Europa. Quando abbiamo registrato Judgement, era nel 1999, mi pare, allora abbiamo veramente sperimentato il calore e lo humor, la generosità di spirito dei nostri fans italiani. Personalmente sono sempre andato molto d’accordo con gli italiani, nel senso che so sempre che mi divertirò molto insieme a loro. Tutto questo si traduce perfettamente sul palco, perché anche lì sono sempre la stessa persona, solo un’estensione più animata di me stesso. La conversazione che ho con il pubblico è sempre molto buona in Italia, perché la gente è divertente.

Rockshock. La relazione che instaurate con la vostra musica è diversa, suonando dal vivo, da quella che si crea in studio?

Vincent Cavanagh. Sì, è diversa. Posso dire ad esempio che la sensazione che hai nel registrare una canzone in studio, è che devi essere completamente concentrato sul testo e sul significato dietro di esso, non devi solo produrre un buon cantato, ma devi davvero catturare l’essenza e il significato di ciò che intendi dire. Ora, nel momento in cui esci per suonare dal vivo, di solito, lo conosci talmente bene che è come un’abitudine. Così entrare in quella modalità è più facile, proprio perché l’hai già fatto molte volte. Quindi ciò che faccio è entrare in quello stato mentale. Ed è molto naturale, e inoltre è l’unico modo che ho per vivere, per sperimentare le nostre canzoni, perché non le ascolto in altre situazioni. Ogni tanto, se ne ho bisogno, le ascolto per consultazione, ma mai per piacere. Per piacere le suono e le canto. Penso che avesse ragione Bob Dylan: ascoltare i propri dischi è come guardarsi allo specchio; restituisce un’immagine congelata, immobile.

Rockshock. Quindi suonando dal vivo senti di poter essere più libero e istintivo…

Vincent Cavanagh. Istintivo, esattamente. Perché dopo tutto la musica è istinto, è intuizione, cose che diventano molto più forti dal vivo, puoi veramente sentirle, posso provare cose diverse con la mia voce, e vedere come vengono. A volte alcuni pezzi sono più liberi e aperti per permettermi di sperimentare. Altre volte è un cantato molto più immediato, ma cerco sempre di migliorare, se posso.

Rockshock. Come si colloca il pubblico in tutto questo? Voglio dire, soprattutto in un club come questo, è facile vedere le risposte, le emozioni del pubblico. Come reagisci a questo elemento?

Vincent Cavanagh. Io stesso mi sento nella loro posizione, in realtà; per me sarebbe la stessa cosa se andassi a sentire una delle mie band preferite dopo aver ascoltato e riascoltato il loro album. E vedere una band dal vivo è un’esperienza molto più intensa e dinamica, perché le parti tranquille sono più sottili, e le parti fragorose sono più potenti. E l’atmosfera di tutta la serata, di ciò che accade intorno a te, può diventare un’esperienza che ti cambia, molto più di quanto possa fare un disco. Sono stato in concerti da cui sono uscito come una persona diversa, lo dico sul serio. Non capita molto spesso se vai a molti concerti, ma ogni tanto capita quel momento speciale in cui ti dici: “Oh, mio Dio! Sarà difficile trovare qualcosa che lo superi”. Noi siamo grandissimi fan della musica, proprio come il nostro pubblico, e siamo davvero nella stessa situazione, viviamo insieme la stessa esperienza. Non mi piace affatto pensare che ci sia una differenza tra noi e il pubblico, è più forte la sensazione che stiamo tutti vivendo la stessa cosa.

Rockshock. Suonerete con Petter Carlsen e The Ocean questa sera. Come siete entrati in contatto con loro, come scegliete i vostri collaboratori?

Vincent Cavanagh. Petter Carlsen è stato una nostra scelta diretta, lo conoscevamo già da un paio d’anni e apprezziamo il suo enorme talento e le sue eccellenti abilità vocali e di song-writing. Ed è anche un buon amico. Il suo secondo album sta per uscire e lui è completamente indipendente, ora, così gli abbiamo detto: “Ci piacerebbe molto se venissi in tour con noi. Lo faresti?” E lui ha detto: “Si, certo!” E’ un grande fan della band da tempo. Con The Ocean è stato un po’ diverso, non li conoscevamo affatto prima di questo tour. Il loro management e il nostro si sono messi in contatto e hanno pensato che sarebbe stato un bell’insieme. E fino ad ora lo è stato, è andata bene. A volte ci capita di scegliere, altre volte no. Petter è un esempio di una nostra scelta.

Rockshock. State per riproporre alcuni dei vostri album in vinile. Perché questa scelta? E credi che questo ritorno del vinile possa in qualche modo cambiare il modo in cui la gente fruisce la musica?

Vincent Cavanagh. Lo spero. Penso che la gente stia cominciando a rendersi conto che la qualità del vinile sia decisamente migliore, in particolar modo al giorno d’oggi: puoi comprare un vinile da 180 grammi con una qualità del suono che è assolutamente superiore a quella di un mp3. Il disco oscilla, ha vita, ha coraggio, ha energia, mentre un mp3 sembra essere compresso e statico in confronto. E penso che molta gente, non solo gli appassionati di musica, si stiano accorgendo di questo. E spero che possa servire anche a riaccendere la passione per il package vero e proprio, perché penso che sia sempre un elemento importante. E se da una parte scopriamo nuovi media, nuove forme di espressione, nuovi modi di presentare la nostra musica, come gallerie multimediali, video, e quant’altro, esisterà comunque anche il package fisico, che a me piace ancora moltissimo, e so per certo di non essere il solo a pensarla così. Quando vedi un vinile con una bella copertina, è una cosa inestimabile, vorresti appenderla alla parete: è un’opera d’arte! L’arte digitale non è assolutamente valida. Lo stesso discorso vale nella pittura: l’arte generata al computer è arte più della pittura? No, non lo è. Entrambi sono valide allo stesso modo. Ogni cosa è valida nel suo spazio come lo è ogni altra cosa. Penso che sia bello il fatto che, man mano che progrediamo come essere umani, accogliamo tutti questi nuovi formati, ma non dobbiamo mai rinunciare alla qualità.

Rockshock. Nella vostra esperienza e opinione, in che senso la musica può essere universale?

Vincent Cavanagh. Immagina il paragone con un bambino appena nato, che ascolta per la prima volta della musica, qualsiasi essa sia, e in qualche modo risponde ad essa. Le sue capacità di linguaggio e di pensiero coerente non sono ancora completamente formate ma la musica è già lì, qualcosa impresso nel suo DNA, come qualcosa di primordiale. E’ insita nel nostro codice genetico, c’è chi reagisce ad essa e chi non lo fa, ma un bambino nato nella musica lo sarà dal suo primissimo giorno di vita. Come tutti noi nella band: non c’è mai stata per noi una strada che non fosse la musica; e alcune persone la fruiscono in questo stesso modo, anche se non suonano. Mia madre ne è stata il principale esempio: non sapeva suonare ma viveva per la musica, la respirava. E questo sentimento è veramente qualcosa di universale. Non importa da quale generazione, paese, cultura o background si provenga. C’è sempre stata questa necessità di creare melodia, di creare ritmo. Le due cose vanno insieme ed è una delle più naturali e antiche forme di espressione che esista. E in questo senso, penso che i testi siano persino meno importanti della musica. Ciò che puoi dire con una singola nota di chitarra verrà recepito da chiunque in qualsiasi parte del mondo, senza il bisogno che parli la tua stessa lingua. Recepisce e sente ciò che dici con la tua nota.

Rockshock. Quali sono i vostri progetti per il futuro?

Vincent Cavanagh. A parte la conquista del mondo? (Ride). Nell’immediato, stiamo continuando a scrivere e intendiamo metterci già all’inizio della strada che porterà al prossimo album, il prima possibile. Penso che Danny [Cavanagh], John [Douglas] ed io trascorreremo le ultime due settimane di gennaio in studio per iniziare a registrare almeno l’ossatura di qualcosa. Vedremo poi dove andrà questo qualcosa. Abbiamo talmente tante idee che dobbiamo prima avviare una struttura per poter capire dove ci porteranno queste idee, a quale sarà il formato adatto per loro. Potremmo fare un full- length, o prima un EP, o un full-length e un EP, o potremmo fare due album? Al momento ci sono solo domande, che potranno avere una risposta o risultarci chiare all’inizio dell’anno prossimo. E in seguito, l’idea è di pubblicare l’album negli Stati Uniti, andare lì e vedere come vanno le cose. Per quanto mi riguarda, vorrei che riuscissimo a uscire con un nuovo album l’anno prossimo e poi proseguire in questa strada a un buon ritmo.

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E, sull’onda di queste ottime prospettive per il futuro, è arrivato il momento del concerto.

La serata inizia con due supporters eterogenei e diversissimi tra loro, ciascuno dei quali, a modo proprio, riesce a conquistare il pubblico.

Da una parte voce e chitarra per il cantautore norvegese Petter Carlsen, in uno show minimalista animato dalle sue notevole qualità vocali e da melodie semplici ma efficaci, che creano un’atmosfera dolce ed eterea.

Che viene spazzata dal rumoroso ed umorale set dei tedeschi The Ocean, che propongono un metal molto aggressivo ma con sfumature sperimentali e cangianti e galvanizzano la sala con le loro esplosioni sonore.

In un clima di fervente attesa, finalmente gli Anathema salgono sul palco, poco dopo le dieci, e il locale è ormai stracolmo.

Le parole sono una descrizione inevitabilmente impallidita del loro set spettacolare e immediato, intenso, generoso (due ore e un quarto filate).

Come anticipato, la prima parte dello show è incentrata su una notevole ed entusiasmante selezione di pezzi dai vecchi album degli Anathema (tra cui Deep, A Natural Disaster, Flying). La partecipazione e l’emozione sono palpabili, così come l’empatia tra band e audience.

La serata continua in un atmosfera ipnotica con l’esecuzione integrale di We’re Here Because We’re Here, altrettanto densa e ricca di suggestioni per tutta la sua durata.

Il finale è praticamente un trionfo. Nonostante sia veramente tardi, arrivano i tre preziosissimi bis: Are You There?, con le sole voce e chitarra di Danny Cavanagh, e l’illuminazione della platea affidata ad accendini e schermi di cellulare del pubblico; One Last Goodbye e Fragile Dreams con la gente che, come in molti altri momenti nel corso del concerto, canta a squarciagola, catturata dalla trascinante musica e dalla presenza allegra e piena di calore degli Anathema.

 

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