Terje Nordgarden
Dieci
(GDN Records)
indie rock
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Chi dava la nostra musica e il nostro bel paese per spacciato, surclassato dallo strapotere esterofilo, dovrà ricredersi. Perché ci sono un sacco di musicisti che lasciano la loro madrepatria per venire in Italia e misurarsi con quello che invece è un ecosistema in continuo movimento. L’ultimo, in ordine di tempo è Erlend Øye dei Kings of Convenience, che l’estate scorsa ha pubblicato il suo singolo cantato in italiano (e che ormai vive a Siracusa). Prima di lui dalla stessa terra è emigrato Terje Nordgarden, che ha attraversato lo stivale in lungo e in largo, collaborando con i musicisti della sua scena indipendente e dando vita a quattro album. Per festeggiare i suoi dieci anni tra noi pubblica Dieci, CD di cover scelte con un criterio e un gusto molto personali.
Dieci contiene – ça va sans dire – dieci brani scritti da altrettanti artisti nostrani cosiddetti “di nicchia”, riarrangiati con il preciso intento di dar loro una veste nuova, decisamente più vicina ai grandi classici (Springsteen, Dylan, Elliot Smith) che hanno da sempre influenzato le sonorità di Nordgarden. Peculiare la scelta della tracklist, un omaggio, a detta dello stesso artista, a una scena che “ci ha fornito spazi di respiro e di rifugio da una società sempre più superficiale e cinica”. Oggi più che mai, la musica assume un ruolo sociale sempre più preponderante.
L’esperimento ottiene risultati diversi: riesce perfettamente con Non è la California di Iacampo, Dove mi perdo di Grazia di Michele (che assume un allure vintage in chiave seventies italiano) e La realtà non esiste, pezzo di Claudio Rocchi che più di tutti risente dell’avvento dell’epoca digitale. Riesce invece un po’ meno bene con La mia rivoluzione di Marco Parente, che si spoglia di quella malinconia che l’ammantava e Invisibile di Cristina Donà, che seppur interessante nella versione ballad lunare piano-voce, non convince (e conquista) quanto l’originale.
Nonostante la difficoltà dell’operazione – coverizzare canzoni di cantautori con una scrittura così personale rischia più che in altri casi di snaturare anche il testo stesso – nel complesso il lavoro è ben riuscito. L’accento di Nordgarden dà quel tocco di originalità a un album celebrativo non tanto della carriera e delle doti di un artista, ma di un paese, delle sue contraddizioni, e del suo modo di fare musica forse più nascosto, ma non per questo meno degno di salire alla ribalta.
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