mulbö: recensione disco omonimo

I mulbö esplorano il subconscio attraverso le 8 tracce dell'esordio omonimo: irrazionalità e post-rock sono i cardini del progetto

mulbö

s/t

(Autoproduzione)

post-rock, psychedelic rock, electronic

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mulboEsistono dischi che sono suonati con le mani e dischi che sono suonati anche con la mente: il progetto dei torinesi mulbö fa parte della seconda schiera.

Formatasi nel 2013, la band capeggiata da Claudio, Eros ed Alessandro (questi ultimi due ex Merçe Vivo) ha allargato in seguito la formazione con l’ingresso di Fabio.

Questo disco omonimo, uscito a dicembre dello scorso anno, è un labirinto musicale e interiore, trentacinque minuti di follia, razionalità, claustrofobia. Un mix di sensazioni con svariate chiavi di lettura, un intenso viaggio nei meandri sconosciuti dell’animo.

In mulbö tutto sembra animato: tra sovraincisioni e sfumature, gli strumenti prendono vita e costruiscono un flusso di coscienza che trasporta l’ascoltatore nel suo interno. Emblematica è la copertina del disco: un occhio che guarda un corpo umano e ne rivela i percorsi di vene e arterie. Un occhio che quindi vuole scavare nel profondo di noi stessi per provare a dare un significato all’irrazionale. Questa ricerca passa attraverso otto brani strumentali dai titoli enigmatici (non a caso).

Già l’inizio del disco è palpitante: Humbaba si apre con rumori inquietanti, sinistri (che saranno il leit motiv e collante dall’inizio alla fine di mulbö): un post rock tortoisiano ma spettrale, con basso claustrofobico, sax criptico e psichedelico, batteria tribale e un’elettronica che tende all’ignoto. Il risultato è un brano arcano ed avvincente.

Il basso pulsante apre Noun, con voci lontane filtrate e la batteria che accresce la tensione. L’elettronica contribuisce con un tocco esoterico, mentre il sax aumenta il senso di paranoia. Kobe allenta relativamente la tensione, con un avvincente duello tra gli strumenti.

Sonorità drum ‘n’ bass trovano posto in Marno Edwin, pezzo martellante quanto caustico.

Thallium Case, per sax acido ed incalzante, basso ossessivo e batteria risoluta, è un incubo psichedelico a grande velocità.

Szen Ji, che apre a sensazioni orientali, è un angolo zen con strumenti in sottofondo. Il risultato è ovviamente un ambiente rilassante e sipirituale, meno esoterico della In Den Gärten Pharaos dei Popol Vuh.

Xagalka sconfina nell’ignoto, tra rumori cavernosi ed abissali. Una psichedelia ambientale che per certi versi riprende sia il Mundus Subterraneus dei Lightwave, sia lo Zeit dei Tangerine Dream.

Chiude l’album la paranoica Reamut, tra ruggiti tribali, sax virulento, chitarra funky e feedback. L’ordine della prima parte viene pian piano spazzato via dal muro sonoro creato dagli strumenti,che si sovrappongono ormai senza controllo.

Uno dei punti chiave di mulbö è la dinamicità delle tracce: niente è lasciato al caso, tutto scorre e muta, il che rende bene la sensazione di movimento, di un vero e proprio percorso. Gli strumenti ricreano perfettamente sensazioni claustrofobiche e misteriose che appartengono all’irrazionale. I brani di mulbö sono scie musicali che aiutano l’ascoltatore ad immergersi nel proprio io, a sviscerarne le paure, e a cercare una via per controllarle.

 

 

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