Maneskin: recensione Teatro d’Ira Volume 1

I Maneskin tornano sulle scene con un album che all'apparenza sempre non distanziarsi dal loro esordio, ma che in realtà sposta di qualche metro la loro credibilità musicale.

Maneskin

Teatro d’ira Volume 1

(Sony Music)

rock

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recensione Maneskin Teatro d'ira Volume 1Magari non sarò molto popolare, ma di questi tempi fatta di rap, trap, autotune e tutto quello che c’è attorno, il nuovo album dei ManeskinTeatro d’ira Volume 1 – è una sana boccata d’ossigeno nell’onesto e sano rock fatto con gli strumenti veri.

I Maneskin tornano sulle scene e lo fa nel migliore dei modi, rilasciando alla fine dell’anno scorso il singolo Vent’anni che musicalmente ricorda molto il loro singolo precedente (Torna a Casa) e questo fu quasi una delusione. Poi ci fu l’annuncio della loro partecipazione a Sanremo e la notizia la appresi come uno dei tanti palchi, dove promuovere la propria musica e lanciare il nuovo album. Una bomba, vincono Sanremo e lo fanno con uno dei loro brani più potenti: Zitti e buoni.

Il nuovo album non delude le aspettative e non spiazza vecchi e nuovi fan.

Il disco parte con il brano sanremese, di cui ho già espresso la mia opinione (potente, rabbioso e suonato con rabbia tipicamente giovanile, verrebbe quasi da dire Smells Like Teen Spirit), ma è da Coralineche parte il nuovo progetto che in realtà si svela ben diverso e ben lontano dal loro album d’esordio che risentiva parecchio della loro partecipazione a X Factor.

Il secondo brano spiazza perché fa parte di quei brani che iniziano in un modo e si sviluppano su binari diversi svelando le reali intenzioni della band e che sono quelle di un lavoro molto lontano dalle venature pop, molto lontane dalle sonorità più ammiccanti e ben distanti dalle mode musicali di oggi.

Già al terzo brano (Lividi sui Gomiti) si hanno le prime conferme, l’album è trasudato e attraversato da una rabbia tipicamente giovanile che ormai appare disillusa, frammentata, persa e la reazione è di sputare sentenze e giudizi che non sono mai tanto delicati.

Non mancano i brani in inglese (I wanna be your slave e For your love) che sembrano, come tematiche, due brani contrapposti uno all’altro, quasi a dimostrate versatilità dei Maneskin, che si trovano a proprio agio a parlare sia di sesso sia di amore.

 

Il brano più rappresentativo, o per lo meno, quello che mi ha colpito di più è In nome del padre, un brano dove la voce di Damiano esplode in tutta la sua sfrontatezza e in tutta la sua capacità di essere leader, front man e animale da palcoscenico.

Il lavoro si chiude con Vent’anni che pare chiudere un cerchio fatto di chitarre distorte, batteria pulsante, basso predominate e voce arrabbiata. È la quiete dopo la tempesta.

L’intero album per quanto il mio parere è del tutto soddisfacente ha dei pregi e dei difetti.

I difetti sono da ricercare, a volte, nei vari tentativi di assomigliare sempre a qualcosa già sentito e questo può rappresentare un problema perché non si trovano elementi che li contraddistinguano totalmente e li renda davvero unici e originali. L’uso di parolacce in quasi tutti i testi possono sembrare una grande furberia e non reale rabbia. La loro teatralità a volte è un po’ portata agli estremi e a volte, eccedendo, il pubblico si può stancare.

I pregi sono: l’arroganza della band che è tipica della loro giovane età e che li ha portati nel giro di pochi anni a essere una delle realtà più interessanti nel panorama musicale. Come ho detto prima, è un lavoro che fa un passo avanti rispetto al loro esordio. In una loro recente intervista, hanno dichiarato di aver composto i brani tutti insieme e che li hanno registrati tutti in presa diretta per non perdere spontaneità e onestà musicale e questo per me è un punto d’onore per loro. Chapeau.

Ad ogni modo un album che scorre piacevole che piacerà sicuramente ai giovani di oggi e anche a noi che abbiamo superato la soglia degli anta perché grazie a loro ci ricordiamo ancora che esiste musica suonata e fatta col cuore senza finzioni elettroniche e altre diavolerie cibernetiche.

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Michele Larotonda
Michele Larotonda

Michele Larotonda nasce a Potenza nel 1977, ma vive e lavora a Milano.
Scopre la sua passione per la scrittura durante i dieci anni trascorsi a suonare in una band in cui ricopre il ruolo di cantante e autore dei testi. Decisivo poi l’incontro con l’associazione culturale Magnolia Italia, grazie alla quale frequenta corsi di scrittura creativa e si avvicina al cinema scrivendo e realizzando cortometraggi che hanno avuto visibilità in alcune rassegne specializzate.
Scrive sulla rivista letteraria Inkroci, occupandosi di recensioni musicali, e sul blog letterario Sul Romanzo, dove recensisce libri. Ha pubblicato i libri “Sai Cosa Voglio Dire?” e “Il fascino discreto della Basilicata”.
“Il Sognoscuro” è il suo primo romanzo.

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