Julia Kent: Asperities

La violoncellista canadese Julia Kent ci regala la sua quarta fatica da solista: Asperities è un disco denso, cupo, dove i drones si mischiano alle armonie profonde e solenni. Una perla nera nascosta in fondo all'oceano

Julia Kent

Asperities

(TheLeafLabel)

instrumental, alternative, drone

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Julia Kent- Asperties-recensioneAsperities è il quarto album da solista della violoncellista canadese Julia Kent. Un curriculum stellare che parla di Rasputina, Antony & The Johnsons, Swans, Aidan Baker, Rachel Grimes, Rutger Zuydervelt, Barbara Morgenstern, Library Tapes, Khan of Finland, musiche per il teatro, balletti, cinema, documentari, cortometraggi; Sorrentino ha voluto le sue musiche in This Must Be The Place. Insomma: la levatura dell’artista è fuori discussione.

L’album inizia con una nota di bordone sulla quale si adagia una costruzione sonora fatta di strati e armonie che si sommano, con un sapiente uso di loop, fino a venire trafitte come lenzuola al vento da drones tellurici ed incalzanti. Se in previsione dell’ascolto vi sarete muniti di un buon paio di cuffie, sentirete scuotere e vibrare le corde gravi del violoncello di Julia Kent proprio in fondo alla vostra pancia fino a causarvi una pelle d’oca che andrà e verrà per tutti i 44 minuti scarsi del disco.

Le vibrazioni risuonano corpose e rotonde, autorevoli e nere come la pece. Asperities ci porta in viaggio, in esplorazione, attraverso gli angoli più bui, nascosti, reconditi della nostra mente. Un tuffo nella penombra, sfiorando le tenebre con i polpastrelli, alla ricerca di risposte a domande feroci. Quali sono le cause dei nostri malesseri, delle nostre sofferenze , dei nostri disagi? Quale il fine ultimo delle nostre battaglie, delle nostre fughe? La risposta spesso è nascosta dentro ad uno specchio e mi piace pensare che anche Julia Kent la possa vedere allo stesso mio modo: con quei riflessi di luce riverberata che prendono personalità nei layer sonori ed acquistano forme e volti nella costruzione di edifici fatti di reiterazioni e suoni processati.

Un disco concepito e registrato in solitudine, in una New York che immagino fredda nell’anima e gelida a fior di pelle. Julia Kent racconta di aver composto i brani cercando di analizzare, attraverso la composizione, l’affanno, il conflitto interiore, che scaturisce da nuove forme di disagio, senso di colpa, paura, causati da una modernità frenetica, intarsiata di obsolescenza programmata. A mio parere ciò che ne è venuto fuori è un compendio sull’umanità che, nonostante privo di una singola parola, sarebbe piaciuto anche a Balzac. Violoncello ed elettronica, mischiati con una eleganza sopraffina, impersonano alla perfezione la materialità, la fisicità, la carnalità dell’uomo, da una parte, e la freddezza, la routine, l’estetica, la schematicità della società contemporanea dall’altra.

Una tensione continua sorregge l’intero lavoro, buio e denso nei toni, ma allo stesso tempo maestoso ed imponente nella forma, come un enorme albero secolare; tanto da lasciare senza fiato una volta che lo si è scorto per intero e se n’è apprezzata l’interezza. Nove tracce di una bellezza dolorosa, che si fa sentire sulla pelle come graffi profondi, pulsanti, caldi, pungenti. Asperities è un disco emozionante, commovente, che tocca corde nascoste in profondità e le fa vibrare allo sfregare dell’archetto di Julia Kent.

Una cattedrale sonora elegante, slanciata, morbida, grandissima, che intimidisce e ci fa sentire minuscoli di fronte a tanta perfezione. Eppure allo stesso tempo ci rende parte di qualcosa di più grande, presenti, vivi. Una riflessione sulla dignità umana, sulla legittimità delle nostre imperfezioni, sulla profondità dei nostri abissi, sulla complessità della nostra lucida follia.

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