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Del tramonto dell’Europa occidentale: intervista ai Port-Royal

Con i Port-Royal abbiamo parlato un po' di tutto, del declino della civiltà europea e, soprattutto, di musica. L'elettronica può avere un volto umano, un cuore pulsante emozionato ed emozionante

port-royal_studioLo scorso 8 ottobre i genovesi Port-Royal hanno presentato al Circolo egli Artisti di Roma Dying in Time, la loro ultima fatica. In verità il concerto è stato molto più dance di quanto ci si poteva aspettare ascoltando i loro dischi, ma suggestioni e divertimento non sono mancati. Anzi. Hanno dimostrato, da dietro i loro laptop e loro macchine, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che l’elettronica può avere un volto umano, un cuore pulsante emozionato ed emozionante.

Non potevamo perdere l’occasione per farci spiegare l’universo sonoro dei Port-Royal per bocca della loro mente pensante, Attilio Bruzzone. Ecco com’è andata.

RockShock. Attilio, benvenuto sulle pagine di RockShock.it. A beneficio dei nostri lettori che non vi conoscono, vuoi provare a raccontarci a chi si rivolge la vostra musica, qual’è il vostro pubblico d’elezione?

Attilio. Premesso che non mi sento un artista indie in contrapposizione all’artista pop, direi che la nostra musica… può piacere a tutti e si rivolge a tutti, dagli appassionati di musica elettronica ai fans di Lady Gaga. In realtà il nostro pubblico è prevalentemente indie, ma – senza voler dare un giudizio negativo – spesso chi sente pop lo fa in maniera superficiale, mette la radio ed è quasi una compagnia. Per me la musica non è una compagnia, è un viaggio. E’ come quando leggo un libro: è un incontro col suo autore. Quando leggo non leggo per uccidere il tempo o come passatempo, ma per riempire il tempo. E’ la stessa cosa con la musica, puoi decidere che sia un semplice ammazza-tempo o puoi scegliere di spendere parte del tuo tempo con la musica. Dying in Time credo che sia adatto ad entrambi i tipi di fruizione, anche se ovviamente lo capirà di più quello che lo ascolta per riempire il tempo.

RS. Qui esce il filosofo che è in Attilio!

A. E’ il mio lavoro al di là della musica.

RS. Il vostro disco si chiama Dying in Time: sembrerebbe un titolo un po’ oscuro, tetro, buio, e invece il disco a me sembra più la colonna sonora di un’alba più che di un tramonto.

A. Dying in Time non vuol essere un titolo tipo Il Tramonto dell’Occidente di Spengler , si riferisce piuttosto alla necessità di finire le cose in tempo, anche la vita di un artista (non la vita biologica ma la vita artistica).  Tante volte vedi gente del mondo del cinema, dello spettacolo, dell’arte, che va avanti e avanti, ed è patetica. Dying in Time quindi significa chiudere con certe situazioni che son già morte, rendersi conto della morte di qualcosa e quindi farla morire a tempo. Morire, far finire a tempo debito qualcosa: hai ragione tu, in questo senso Dying in Time è la colonna sonora di un’alba, di un nuovo inizio.

RS. Questo disco ha una virata decisamente più elettronica rispetto ai lavori precedenti.

A. In realtà in parte c’era stata già dal lavoro precedente, anche se qui è più esplicita. Personalmente mi piace e apprezzo un certo tipo di musica – addirittura preferisco il suono della batteria elettronica a quello della batteria vera, ma è una questione di gusti – quindi è ovvio che cerchi delle soluzioni formali più dal punto di vista dell’elettronica, che mi soddisfano di più esteticamente. Purtroppo e per fortuna non siamo ancora a livello che componiamo pezzi chiedendoci “cosa piacerà al pubblico?” o del doverci limitare ai tre minuti e mezzo radiofonici. Io personalmente preferisco i pezzi lunghi e … mi hanno anche detto che i pezzi dei Port-Royal sono ottimi per notti di sesso davvero lunghe.

RS. Quando componete i vostri pezzi – e mi riferisco soprattutto all’ultimo disco – tenete comunque conto della resa live o ve ne buggerate allegramente?

A. I Port-Royal sono un gruppo che punta di più alla musica registrata e quindi non cediamo a nessun compromesso con quella che può essere o non essere la resa live. Il concerto è una bella esperienza che però si dimentica, quello che rimane è il disco. Tra dieci anni non so se i Port-Royal saranno ancora sui palchi, mentre mi auguro che i nostri dischi siano ancora ascoltati. Per questo cerchiamo di realizzare dischi che abbiano il fiato lungo; quello che critico alla musica elettronica degli ultimi anni è che è troppo dedita alla forma, se non proprio alle mode. Fai un disco e dopo sei mesi sei già vecchio. Un buon contenuto non sarà mai obsoleto; pensa a Beethoven: per quanto un giovane d’oggi non si accosti alla musica classica come vi si sarebbe accostato un giovane del novecento, è comunque una musica immortale. La musica contemporanea corre il rischio di essere usa e getta per seguire le regole di un mercato che è fondamentalmente consumistico. Pur non facendomi illusioni, vorrei che la nostra musica sopravviva al futuro.

RS. Qualche tempo fa qualcuno ha chiesto ai Mogwai il significato dei titoli delle loro canzoni e loro hanno risposto che sono solamente un modo per identificare un pezzo e che scelgono i titoli per il suono o per esprimere ironia, senza che ciò implichi nulla con la genesi o i contenuti di una canzone. E’ lo stesso anche per voi?

A. E’ lo stesso anche per noi solo in parte. In quest’album, ad esempio, spesso ho cercato di dare i titoli a quello che la canzone mi suscita e/o dai sentimenti da cui è stata generata. Per esempio con Night in Kiev volevo ricordare il mio periodo trascorso in Ucraina. Hva (Failed Revolutions) si riferisce ai servizi segreti della Germania Orientale durante la cortina di ferro e volevo dedicargli un pezzo perché è una branca dei servizi per lo più sconosciuta, ma storicamente più attiva e che ha conseguito i più grandi successi in tutto il blocco comunista. Failed Revolution si riferisce al fallimento della rivoluzione comunista: una rivoluzione, seppure partita da una concezione filosofica geniale, non può mai chiudersi a riccio, rintanarsi nei suoi confini e diventare oppressiva, devastante. Quanto a Exhausted Muse/Europe … noi pensiamo che l’Europa sia sostanzialmente esausta; non è una critica è un dato di fatto. Te ne rendi conto se viaggi in Europa occidentale, personalmente vedo solo gente completamente esausta, gente che si vergogna delle proprie origini. Sia chiaro, non è che credo tu devi essere orgoglioso perché sei bianco, sei nero o sei giallo, quello non dipende da te quindi uno che lo è è semplicemente uno stupido (non lo chiamo nemmeno razzista, semplicemente stupido). L’Europa ha una storia grandissima ed è stata la matrice culturale di tutto il mondo occidentale oltre che del buon che hanno gli Stati Uniti, mentre quello che hanno di peggio è un misto della loro interpretazione della cultura europea. Io mi sento profondamente europeo e vedere un’Europa che è devastata che non ha altro valore se non l’unione economica … lo trovo davvero triste. Questo brano si riferisce qui all’Europa come musa esausta, frustrata e degradata a puro denaro.

RS. I vostri primi due dischi sono usciti per l’etichetta londinese Resonant, ormai fallita. Dying in Time esce invece per un’etichetta romana: avete archiviato i vostri progetti internazionali?

A. No, no. La Sleeping Star si occupa solo dell’Italia, ma l’album è già uscito in tutto il mondo per sei etichette diverse e per una label specializzata in distribuzione digitale, la n5MD.

RS. Avete suonato e continuate a suonare un po’ ovunque, specie nell’Europa dell’Est. Ricevete ssempre lo stesso tipo di reazione da parte del pubblico?

A. Di comune a tutte le aree geografiche c’è che ai nostri spettacoli non ci sono ragazzini. Di comune c’è che un po’ ovunque, Italia e forse Spagna escluse, la gente va al concerto per divertirsi, si lascia andare e non sta là ad aspettare l’errore per criticare. Personalmente approvo questo tipo di approccio: con un disco sono molto critico, mi piace, non mi piace e gli faccio le pulci, a un concerto preferisco divertirmi e lasciarmi andare, l’approccio che trovo soprattutto nell’Europa dell’est.

(Intervista di Massimo Garofalo con la collaborazione di Vincenzo Riggio)

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Massimo Garofalo
Massimo Garofalo

Critico cinematografico, sul finire degli anni '90 sono passato a scrivere di musica su mensili di hi-fi, prima di fondare una webzine (defunta) dedicata al post-rock e all'isolazionismo. Ex caporedattore musica e spettacoli di Caltanet.it (parte web di Messaggero, Mattino e Leggo), ex collaboratore di Leggo, il 4 ottobre 2002 ho presentato al cyberspazio RockShock.
Parola d'ordine: curiosità.
Musica preferita: dal vivo, ben suonata e ad altissimo volume (anche un buon lightshow non guasta)

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