Depeche Mode
Memento Mori
(Columbia)
synthwave
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Vi confesso che ho temuto. Ho avuto paura che i Depeche Mode finissero in una serie di spettacoli (auto)celebrativi in un casinò. Li ho immaginati in uno di quei festival nostalgici per attempati boomers (o della Generazione X, come il sottoscritto). Li davo per sciolti dopo la scomparsa di Fletch. Bolliti dopo la pallida esibizione a Sanremo. O capaci di licenziare un album-spazzatura pur di fare un altro tour.
Per fortuna Memento Mori ha spazzato via tutti i miei timori. O quasi.
Siamo alle prese con un disco nero come la pece, tanto quanto lo era Black Celebration. 12 brani in cui le chitarre nei credits compaiono solo in 3 canzoni. Un album fortemente collaborativo: un brano a firma Gore-Gahan (la prima volta nella storia!), il tocco produttivo di James Ford (anche in Spirit e metà dei Simian Mobile Disco), l’estro di Marta Scalogni (effetti, nastri, reamping realizzato nei bagni dello studio, per sfruttarne il reverbero), gli archi di Davide Rossi (arrangiati nello studio di Rick Rubin) e – ultimo ma non ultimo – Richard Butler dei Psychedelic Furs, co-autore di 4 brani e di cui si vocifera abbia cantato nei demo poi arrivati a Dave Gahan.
Memento Mori è un disco che ci fa ripiombare negli ’80 e ’90, tra auto-citazioni, omaggi ai Joy Division e imbarazzanti rimandi ai Kratwerk (People Are Good).
Ma ci sono anche momenti di altissima classe (la solennità di Speak to Me), synth metallici che suonano alla grande, seduttivi labirinti digitali (Caroline’s Monkey), rimandi ai primi anni della carriera dei DM (Wagging Tongue), la pura poesia delle liriche di Ghosts Again.
Molto meno politico che gli ultimi album dell’ormai duo, i testi mettono sul piatto un ventaglio di emozioni e suggestioni che passano dalla paranoia all’ossessione, dalla malinconia alla nostalgia, arrivando anche a momenti di pura gioia.
Ultra è stato probabilmente l’ultimo album con cui i Depeche Mode hanno fatto messe di nuovi fan; con Memento Mori invece giocano in casa, in una zona di comfort in cui i guizzi sono affidati ai collaboratori esterni e in cui non c’è (probabilmente) nessuna hit planetaria, bensì 12 brani che reclamano un ascolto consecutivo e non a tozzi e bocconi.
Ma soprattuto c’è una produzione che (vivadio!) premia l’ascolto di qualità, premia la fruizione in cuffia e penalizza chi vorrà approcciarsi a quest’album dallo stramaledetto telefonino.
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