Brut Oss: recensione disco omonimo

I Brut Oss, quartetto emiliano radicato nella Pianura Padana, pubblicano un album omonimo che dimostra che c'è ancora (un pochino) di spazio per lo stoner rock.

Brut Oss

s/t

(Orzorock Music)

stoner

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Nei primi anni novanta ci fu l’esplosione di un nuovo genere (che poi tanto nuovo non era, perché riusciva a sintetizzare al meglio le lezioni spiegate ed impartite nel passato da gente come Blue Cheer e Black Sabbath) come lo stoner.

Tutto iniziò grazie alla lungimiranza e alla visionarietà dei Kyuss, band americana guidata dal duo Josh Homme – John Garcia che ebbe l’abilità e bravura di unire la pesantezza del sound chitarristico con un gusto spiccato per la melodia che rese i loro lavori inarrivabili. Se a questo aggiungiamo il successo incredibile dei Queens Of The Stone Age che sdoganarono lo stoner a grande fenomeno di massa, ci si rende conto come questo genere abbia attecchito tantissimo nel corso di questi ultimi venti anni.

L’aspetto sorprendente è che oggi nel mondo, ma soprattutto nel nostro Bel Paese, proliferano come funghi gruppi che si ispirano in modo palese e senza neanche troppe concezioni velate a ciò che un tempo furono proprio i Kyuss o gli Unida (una delle tante creature partorite dall’estroso John Garcia).

I Brut Oss, quartetto emiliano radicato nella Pianura Padana, è una di quelle formazioni che sicuramente nel suo percorso di crescita avrà ascoltato milioni di volte Blues For The Red Sun, perché il tipo di sound messo in atto ricorda, sin troppo, quello che i figli del deserto misero in atto quando scrissero pezzi immortali come, ad esempio, Green Machine.

I sei brani che sono presenti in questo EP omonimo sono un ottimo esercizio di stile, si fanno ascoltare con piacere ed hanno anche una base melodica importante e che molti loro colleghi hanno dimenticato, come se fosse un’offesa ai santi e agli dei scrivere canzoni che si possano ricordare.

Almeno, qui dentro, i pezzi realizzati sanno rimanere in piedi da soli, ma hanno un qualcosa che sa di ascoltato e riascoltato nel corso di tutti questi anni.

Forse la nostra carta d’identità ci condanna e ci fa apparire come quelli con la puzza sotto il naso, ma è semplicemente ciò che si percepisce dopo aver snocciolato con cura un lavoro che, lo ripetiamo nuovamente, è gradevole e si lascia apprezzare.

Il problema è che sappiamo cosa accadde trenta anni fa e questo, volenti o nolenti, influisce sulla valutazione di un disco che, comunque, arriva in scioltezza alla sufficienza.

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Francesco Brunale
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