The Last Drop Of Blood: recensione di Season II

The Last Drop Of Blood: la band veronese si muove tra onde blues sporche e marce, con un songwriting che mano a mano cresce in maniera esponenziale.

The Last Drop Of Blood

Season II

(VRec)

rock

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Partiamo dalla fine e diciamo immediatamente e senza remore che Season II è un disco bellissimo che si riconcilia con la musica di qualità.

Entriamo più nello specifico per capire quali siano i tratti salienti dei veronesi The Last Drop Of Blood, che si sono fatti produrre questo nuovo capitolo della propria carriera da Shawn Lee.

Qui dentro ci si muove persi tra onde blues sporche e marce, in cui si odono echi dei soliti Rival Sons e degli ultimi Queens Of The Stone Age. Il tutto viene frullato all’interno di una tradizione sempre attenta all’aspetto melodico che non viene, giustamente, mai perso di vista.

Le chitarre calde delineano il tutto, marcando in maniera incontrovertibile il sound preciso e lineare dei The Last Drop Of Blood.

Le otto canzoni registrate hanno un imprinting molto cadenzato, a partire dall’iniziale Till I’M Buried, movimentata da quell’armonica martellante e dallo slide che ci riportano alla mente i paesaggi paludosi della Louisiana.

La voce di Carlo Cappiotti è un altro bel segreto del gruppo e si incastra molto bene con ciò che gli viene proposto.

Le atmosfere si fanno ancora più buie e pastose con la successiva Love Funeral dove si percepisce chiaramente l’amore per il blues (comunque rivisitato in chiave moderna) da parte dei cinque.

Il livello del songwriting cresce in modo esponenziale con l’ottima Postcards From A Ghost Town che ha un respiro di natura internazionale.

Si tratta di una classica canzone dalle atmosfere “on the road” che ha dalla sua la voglia di liberare mentalmente l’ascoltatore da schemi e catene.

Qui si viaggia in modo molto naturale e ci si lascia trasportare su binari di assoluta libertà, un po’ come era solito fare il primo Jeff Healey.

Ci sono in questo prodotto anche un paio di ospitate. La prima riguarda proprio Shawn Lee che compare in Feelin’ Good che ha dei tratti più marcati, quasi alla White Stripes e non vuole volutamente esplodere, lasciando trasparire un filo di tensione che l’accompagna dall’inizio sino alla fine.

L’altra la si trova nella conclusiva Blood Everywhere dove si ascolta volutamente in lontananza la splendida voce di Andrea Chimenti, artista che non ha bisogno di presentazioni.

Per il resto, le altre canzoni che chiudono questo splendido gioiello sono delle piccole perle che vanno gustate con calma e dedizione. Se questo album fosse stato realizzato da una band americana o inglese si griderebbe al miracolo. Sarebbe ora, invece, di guardare più dentro il giardino di casa nostra, perché anche in Italia c’è stata, c’è e ci sarà tanta buona musica di qualità.

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Francesco Brunale
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