The DusT: Portrait of a Change

Gli intriganti DusT miscelano ricordi, riesumano emozioni e provano a regalarci momenti degni di un piacere dimenticato

The DusT

Portrait of a Change

(Cd, Autoproduzione)

rock

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portrait-of-a-change-the-dustDa sempre il consiglio che si dà a chi si accinge a diventare musicista è suonare ciò che più gli è gradito, poiché solo appassionandosi a quel che si produce si può sperare in risultati di buona qualità.

Il progetto DusT, nato nell’ormai lontano 1995 dalla mente del cantante Roberto Grillo, si è sempre perseguito la finalità di produrre un tipo di rock molto debitore verso le sonorità anni ’70 in varie sue sfaccettature, da quelle più prettamente glam a quelle più hard, da quelle più progressive a quelle psichedeliche. Questo ideale ha permesso alla band di dare alla luce tre album già negli anni passati, nonostante le grosse difficoltà dovute alla mancanza di successo stabile e soprattutto di stabilità della formazione, che ha fin dall’inizio subìto numerose modifiche.

Ad oggi solo Grillo è rimasto dei membri originali, ed i DusT si considerano prevalentemente un duo (la cui altra metà sarebbe personificata dal chitarrista Andrea Gottardi) che si avvale della collaborazione di musicisti vari e validi. E’ così che viene alla luce il quarto ed autoprodotto Portrait of a Change, loro ultima fatica discografica.

Ormai giunta alla maturità, la mente del fondatore e dei suoi collaboratori musicali produce un disco solido ed interessante. Dieci tracce (9 di musica ed una di silenzio in realtà) per una durata non eccessiva né eccessivamente breve, con grande varietà di stili e di ritmi, presenza di ballate, di canzoni più semplici ed orecchiabili e di altre più complesse ed elaborate. Insomma, tutti ingredienti che solitamente fanno sì che un cd possa strappare quantomeno la sufficienza.

La qualità media dei brani abbastanza alta, però, concede ai Dust di ottenere non solo il minimo apprezzamento, ma anche un bel plauso per l’ottimo prodotto fornito al mercato musicale italiano dell’underground. Difatti, poche sono le tracce che non convincono del tutto (diciamo che Kill the Dust e 5 vs 1 possono risultare un po’ anonime) ma in generale ogni brano ha qualcosa da dire e qualche sensazione da regalare.

Ottime le tracks due e tre, ovvero Unborn Love e Now and Again, frizzanti e simpatiche, con dei riff differenti tra loro ma ugualmente efficaci (da sottolineare il buon lavoro del tastierista, specialmente nella prima). Molto intensa Beauty and Love Will Save the World, in cui il cantato sembra particolarmente coinvolto, coinvolgendo a sua volta anche la sensibilità dell’ascoltatore. Ben costruita anche Metropolitan sia strumentalmente che vocalmente, seppur basata su una melodia non molto originale.

Ma tutto ciò non è altro che il preludio per il capolavoro dell’album, ovvero la traccia finale Open the Doors, brano che strizza non poco l’occhio ad un certo tipo di progressive: dolce e melodiosa l’intro di piano, grintoso il prosieguo con una chitarra molto protagonista e con l’intervento portante degli archi ad accompagnare e a presentarci una seconda parte primaverile, molto tranquilla e solare, interrotta da un intermezzo confuso che ricorda un po’ i Pink Floyd di The Wall, per chiudersi infine con la ripresa del ritornello iniziale, sempre grintoso, sempre trascinante…

Non resta che sperare in un successo maggiore, e soprattutto in una maggiore compattezza per un gruppo che nonostante le difficoltà riesce ad esprimere il proprio valore sempre con verve e passione, senza dimenticare ciò che si è e ciò che si potrebbe essere…


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Mauro Abbate
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