Tempelhof: Frozen Dancers

Dilatazioni spazio-temporali e suoni stratificati: la sperimentazione digitale dei Tempelhof continua con il nuovo Frozen Dancers, tra beat disgregati e l'elettronica dei Kraftwerk

Tempelhof

Frozen Dancers

(Cd, Hell Yeah Records)

electronic, idm, ambient

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Tempelhof- Frozen Dancers-coverTempelhof, ex aeroporto di Berlino attivo dal 1927 e chiuso definitivamente nel 2008, è il punto di partenza dell’omonimo gruppo italiano: un duo di musica elettronica, composto da Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani. Con all’attivo già due album (di cui uno di remix) e un EP, i due mantovani hanno sonorizzato anche alcuni documentari dei primi del ‘900 e si sono ritrovati a suonare sui palchi di alcuni festival inglesi.

Dagli inizi ambient-shoegaze contenuti nell’esordio We Were Not There For The Beginning, We Won’t Be There For The End, i Tempelhof si sono diretti con l’EP verso territori elettronici più sperimentali. Questo nuovo Frozen Dancers continua in quella direzione, innestando elementi dub, krautrock (principalmente Kraftwerk), e frammenti di beat up-tempo.

Nell’album viene alterato il senso spaziale e temporale. E’ interessante, infatti, notare la contrapposizione tra i primi due brani: nell’iniziale Drake, tra poliritmi digitali e geometrie rigidamente robotiche, l’elettronica crea un ampio spazio aperto, sterminato. Nella successiva Monday Is Back è il tempo a dilatarsi: tra visioni sulfuree, la melodia cerca un’uscita da questa situazione misteriosa.

La claustrofobica Change continua l’alone arcano tra ripetizioni di voci campionate, loop e pulsazioni ovattate. Il tutto si trasforma in una danza paranoica. Sinking Nation sembra allentare la tensione con il synth arioso, ma resta una morbosità di fondo che anzi cresce. Il brano esplora due sensazioni diverse facendole convivere: a prevalere è comunque il senso d’angoscia.

Dopo l’inizio dai toni quasi maestosi, She Can’t Forgive è preso d’assalto da scariche e proiettili digitali, mentre la voce cerca di mantenere la melodia eterea, di farle spiccare il volo verso altri lidi sonori.

L’oscurità fa di nuovo capolino in due brani grazie ai droni oscuri e tetri: se Nothing On The Horizon con leggeri tocchi elettronici, campionamenti e loop ripetitivi è la più minimale del disco, The Dusk, con i suoi poliritmi, assume le sembianze di una marcia verso l’ignoto.

Nelle ultime due tracce la tensione scema, abbandonandosi a visioni celestiali: Skateboarding At Night è sorretto da pulsazioni dub paranoiche, mentre intorno si eleva la magnificenza radiosa del cosmo. L’ultima, Running Dog, allenta anch’essa la tensione, ma l’effetto è meno visionario e più ritmato nella parte centrale.

Frozen Dancers è un album stratificato che richiede più ascolti per comprendere le molteplici sfumature create dai Tempelhof. Su sfondi post-industriali, il duo manipola spazialità e temporalità con convinzione e capacità: ogni album spazia verso suoni diversi, a testimonianza della continua volontà di mettersi in gioco, nonché della indubbia qualità artistica della band.

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