Primavera Sound 2023: ecco com’è andata la 3 giorni di Barcellona (Depeche Mode, Blur, New Order, Maneskin, Rosalia, …)

È evidente che il Primavera Sound sta vivendo una fase di transizione tra il vecchio e il nuovo, con tutte le incertezze dal caso. Ma continua ad essere il più eccitante festival a cui partecipare. Ecco com'è andata l'edizione 2023.

Primavera Sound 2023

1 – 3 giugno

Barcellona, Parc Del Forum

live report

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Dopo i problemi dello scorso anno, il Primavera Sound 2023 è una vera e propria macchina da guerra: l’entrata via app è collaudata e in meno di 5 minuti si è dentro, molti di meno sono quelli necessari per prendere una birra (anche nei momenti di massimo affollamento) grazie alle centinaia e centinaia di punti-bar disseminati per tutto il Forum, pochi e comprensibili i momenti critici di deflusso (Depeche Mode e Kendrick Lamar messi di seguito forse non è stata una grande idea, così come non lo è stato lasciare Rosalia praticamente senza clash).

I numeri del Primavera Sound 2023

193.000 persone nei 3 giorni principali del festival (che però in realtà dura una settimana), divisi in 15.000 spettatori disseminati nei club che nei giorni antecedenti hanno riempito di musica Barcellona, 20.000 per il warm-up di mercoledì con i Pet Shop Boys, 25.000 per il party di domenica mattina, 54.000 giovedì (New Order e Blur), 68.000 venerdì (Depeche Mode, Kendrick Lamar, Skrillex, Fred Again..) e 70.000 sabato (Rosalia, Maneskin).

317 concerti in totale per un pubblico arrivato da 121 nazioni diverse e con 29 anni di media; questo è il primo tasto dolente per gli organizzatori, dato che lo scorso anno i non-spagnoli rappresentavano il 70% dei spettatori, caduti al 52% di quest’anno per diverse ragioni: aumento esponenziale dei prezzi degli hotel e dei voli aerei, nonché la concomitanza col Gran Premio di Formula 1, ma anche l’aumento del prezzo del biglietto di ingresso al Festival (325 euro contro i 245 del 2022); a farne le spese è stato soprattutto il pubblico inglese.

Vecchi vs giovani

Non c’è dubbio che il Primavera Sound stia cercando di svecchiarsi. E i numeri gli danno ragione. Ma non è detto che il nuovo che avanza sia necessariamente meglio delle (alcune stanche) reunion.

In un momento storico in cui un po’ tutti i festival europei si stano coachellizzando (cfr dopo), il festival di Barcellona forse è stato il primo ad aprire questa tendenza. Ne è la prova la giornata del giovedì, quella che ha raccolto meno pubblico e in cui gli headliners sono stati Blur e New Order.

I Blur snocciolano in scaletta 20 brani, saccheggiando Park Life e addirittura ripescando Luminous, una b-side del 1994 e che non veniva eseguita live da 24 anni; che Damon Albarn sia una simpatica canaglia è noto, che non sia un grande vocalist… pure, ma che il pubblico non riconoscesse Song 2 – se non dall’attacco di chitarra – provoca delusione sia sui fan duri e puri e sia sul volto del cantante.

I New Order dividono idealmente il concerto-greatest-hits in 3 parti: la prima è quella più chitarrosa, che ben presto lascia spazio a quella più lunga, elettronica e danzereccia (senza far mancare all’appello True Faith Blue Monday), per concludere con un’autocelebrazione (Love Will Tears Us Apart) accompagnata dalla scritta che più volte compare sullo schermo Joy Division is Forever (sigh). Il gruppo oggi capitanato da Bernard Sumner (anche lui non è che sia mai stato un gran cantante) ha dato idea di avere un light-show che – seppure suggestivo – sia stato pensato per spazi decisamente più piccoli (per non parlare della tastierista Gillian Gilbert, che sembrava arrivata direttamente dall’hotel senza essersi levata la camicia da notte).

Come già presagito dallo scrittore Giuseppe Culicchia nel suo (ottimo) libro Brucia la Città (2009), ai giovani non importa assolutamente nulla se sul palco c’è qualcuno che suona dei veri strumenti, se c’è un dj o… nessuno.

A un diversamente giovane come me, invece, fa parecchia impressione vedere sul palco gente come Pusha T, le k-poppers Red Velvet o Baby Keem (che di Lamar è il nipote), giusto per fare qualche nome, stare da soli sul palco e cantare-rapparare su base (!? What the Fuck!?); diverso il discorso per Kendrick Lamar, che per il suo flow si poggia su una vera e propria (cazzutissima) band; diverso ancora il discorso per Rosalia, penalizzata da volumi troppo bassi e che sfrutta i nuovi maxi-schermi (giganteschi, alti tanto quanto i palchi che circondano), rigorosamente in verticale, per fare una sorta di lungo videoclip per TikTok in diretta, con l’operatore della steady-cam protagonista del suo palco tanto quanto lei e il suo corpo di ballo (che spesso e volentieri indossa anche lui una telecamera). A questo punto guardare il concerto dallo schermo di uno smartphone, guardare il palco o guardare uno dei maxi-schermi… è indifferente. E destano più curiosità gli/le influencer che tra il pubblico cercano lo scatto più instagramabile piuttosto che Arlo Parks che girovaga tra la folla.

 

Tra basi e strumenti suonati, i Depeche Mode hanno fatto il loro. In grandissima forma, con un set leggermente ridotto rispetto a quanto portano in giro nel tour in proprio, il problema di Gahan&Gore è che ormai vanno col pilota automatico: sono anni che (ri)propongono il grosso della scaletta sempre uguale a sé stessa, con gli stessi momenti dedicati al karaoke del pubblico, con le stesse pose civettuole di Dave; è vero, stavolta ci sono alcune intro rinnovate e molto carine, l’omaggio a Fletcher col montaggio delle foto di Anton Corbijn è toccante, lo show robusto e divertente, ma se li avete già visti negli ultimi 10/15 anni… nessuna sorpresa.

Il nuovo che suona

Gli americani Wednesday col nuovo lavoro hanno abbandonato quasi del tutto le loro influenze nu-gaze a vantaggio di un indie nervoso, nevrotico e che mi ha fatto venir voglia di approfondire questa band. Hanno suonato sull’Amazon Music stage, ma non si sono lasciati scappare l’occasione per mandare esplicitamente a quel paese lo sponsor per le condizioni in cui tiene i suoi dipendenti.

I bar italia, rigorosamente scritto tutto in minuscolo, sono composti da una ragazza romana trapiantata a Londra, due chitarristi e una sezione ritmica non ufficialmente in line-up: li avevo trovati molto interessanti su disco, mentre dal vivo hanno bisogno ancora di un un po’ di rodaggio.

Gli Yard Act sono stati molto piacevoli, ma il post-punk revival (che personalmente ho abbracciato con piacere a causa della mia anagrafica) quanto altro tempo ancora potrà resistere?

I giganti

Laurie Anderson

Tra i 12 palchi del Primavera Sound uno è l’Auditorium, 3.000 posti a sedere, al chiuso, in una struttura dall’acustica perfetta e architettonicamente interessante.

È qui che sabato a un’ora di distanza si sono dati il cambio due dei massimi agitatori dell’avanguardia newyorkese: John Cale e Laurie Anderson, 81 anni il primo e 77 la seconda, un’ora di set per l’ex Velvet Underground e un’ora e 20 per l’artista multimediale.

John Cale dimostra almeno 15 anni di meno e porta sul palco canzoni prese dai suoi 36 album da solista, più I’m Waiting for the Man dei Velvet Underground e Moonstruck di Nico; quando dopo una tiratissima Villa Albani gli fanno notare che ha ancora qualche minuto a disposizione, attacca una struggente versione di Heartbreak Hotel di Elvis Presley da oltre 10 minuti. Lunga vita a John Cale!

Laurie Anderson sta facendo un breve tour europeo chiamato Let X = X e in cui si fa accompagnare dai Sexmob, un quintetto jazz. Lei tiene per sé vocoder, violino digitale e synth, mentre la band si divide tra chitarre, batteria e fiati. In 80 minuti alterna spoken-word-poetry per farci riflettere, farci (letteralmente!) urlare, o divertire. I brani suonati arrivano da Big Science, ma anche da chissà dove, trovando il modo anche di fare cenno (ovviamente a modo suo) a Get on the Good Foot di James Brown. Se qualche volta me lo dimenticassi, aiutatemi a ricordarmelo: Laurie Anderson all’Auditorium è una delle ragioni per cui da 13 anni continuo a frequentare il Primavera Sound.

Sudore e polvere: non sparate sui Maneskin (e neanche sui Ghost)

Folla delle grandi occasioni per i Maneskin, guardati con sospetto dai festivaleros della prima ora nel momento in cui sono comparsi nella line-up di quello che era il festival più indie del pianeta. Piazzati sul terzo palco più importante (e quello che s’è rivelato il più efficace per qualità audio), hanno incendiato la platea; ho trovato impressionate sentire gli inglesi e gli spagnoli vicino a me cantare in un buon italiano Zitti e Buoni insieme alla band; ho visto 4 ragazzi che si divertono e fanno divertire; ho percepito un gruppo ben amalgamato e già tecnicamente molto cresciuto; sono convinto che siano nati per stare su un palco. In momento storico (che dura già da un bel po’) in cui nessuno musicalmente s’inventa niente… perché dovrebbero farlo proprio i ragazzi romani? Dietro di loro c’è una sapiente operazione di marketing: e quindi? Sono stato contento di vederli in azione e mi sono pure divertito, personalmente trovo eccessivo sia chi li esalta a salvatori del rock e sia chi prova a impallinarli a ogni mossa che fanno. Personalmente trovo molto più interessante osservarli con sana curiosità per verificare se saranno capaci di evolversi e crescere (e hanno le carte in regola per farlo).

Ghost

Non credo che sarai mai andato a vedere un concerto dei Ghost, non sono certo un amante del metal né tantomeno delle sue contaminazioni con gli Abba e col progressive italiano (o almeno queste sono le influenze dichiarate dalla band), ma tra maschere, esplosioni, defribillatori, pioggia di scintille, coriandoli e fumi, senza prendere nulla sul serio… Papa Emeritus IV e soci mi hanno fatto divertire come non mi capitava da tempo.

Il bello di un festival come il Primavera Sound, la bolla che crea negli appassionati, è anche questo, una sospensione dell’incredulità che crea divertimento costante, per 3 giorni di seguito, e ti costringe ad andare avanti a dispetto della stanchezza, del poco sonno, dei chilometri e chilometri percorsi all’interno del Parc del Forum.

E quindi?

È evidente che il Primavera Sound sta vivendo una fase di transizione tra il vecchio e il nuovo, con tutte le incertezze dal caso. È altrettanto evidente che la macchina organizzativa ha funzionato molto bene (da migliorare: un po’ più di stand food e la posizione di un paio di palchi, Boiler Room su tutti). Ed è certo che il prossimo anno saremo (ancora una volta!) a Barcellona.

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Massimo Garofalo
Massimo Garofalo

Critico cinematografico, sul finire degli anni '90 sono passato a scrivere di musica su mensili di hi-fi, prima di fondare una webzine (defunta) dedicata al post-rock e all'isolazionismo. Ex caporedattore musica e spettacoli di Caltanet.it (parte web di Messaggero, Mattino e Leggo), ex collaboratore di Leggo, il 4 ottobre 2002 ho presentato al cyberspazio RockShock.
Parola d'ordine: curiosità.
Musica preferita: dal vivo, ben suonata e ad altissimo volume (anche un buon lightshow non guasta)

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