Intervista ai Piccoli Omicidi

Con la complicità di Paolo Benvegnù, qualche settimana fa i Piccoli Omicidi ci avevano emozionato con Ad un Centimetro dal Suolo. Meritano di approfondire la conoscenza.


Piccoli Omicidi_intervistaCon la complicità di Paolo Benvegnù, qualche settimana fa i Piccoli Omicidi ci avevano emozionato con Ad un Centimetro dal Suolo.

Meritano di approfondire la conoscenza.

Piccoli Omicidi_Fino alla fine del mondo_teaser from Still Fizzy on Vimeo.

RockShock. Piccoli Omicidi, una volta per tutte, da dove arriva il vostro “macabro nome”?

Piccoli Omicidi. Il nome Piccoli Omicidi, in realtà, nel mio immaginario non ha nulla di macabro. Già l’abbinamento tra le due parole è un paradosso. Un omicidio non può essere piccolo, o lo è o non lo è. Nella mia visione, tutte le cose che racconto nelle canzoni sono piccoli omicidi. Se diamo un volto alle nostre paure, alle nostra ansie, alle nostre complicazioni quotidiane, forse è più facile combatterle ed ucciderle. Da qui il nome Piccoli Omicidi, non abbiamo intenzione di uccidere nessuno, solo eliminare le cose che turbano la nostra esistenza, giorno per giorno.

RS. Da poco uscito il vostro primo disco in studio Ad Un Centimetro dal Suolo: 6 anni di vita musicale insieme prima di dare alla luce questo primo lavoro. Come mai tutto questo tempo?

PO. Il progetto del primo disco è nato quando ho scoperto che avevo qualcosa da dire. Credo che fare un CD solo per “fare un CD” non serva a nulla, sia per chi lo fa che per colui che ne potenzialmente ne usufruisce. Le tematiche affrontate negli undici brani del disco, riguardano la quotidianità, e non siamo andati ad affrontare argomenti insoliti o bizzarri. Il rischio era di raccontare storie in maniera banale e scontata. Il fatto di non avere scadenze e pressioni commerciali ci ha permesso di sviluppare questi concetti nella maniera che volevamo, che, a costo di sembrare immodesti, definiremmo elegante.

RS. Un disco con una produzione illustre, quella di Paolo Benvegnù, potreste descriverlo e descrivere la sua influenza nella vostra musica e nel disco anche a chi non conosce la sua musica?

PO. Ad un certo punto, durante il corso dei lavori, mi sono reso conto che serviva un orecchio esterno, una persona che non fosse così coinvolta nel progetto che potesse sdoganarci da noi stessi ed avere una visione più critica del prodotto. Conobbi Paolo Benvegnù nel 2006, ad un seminario sulla musica e la scrittura, e gli proposi il mio materiale. Pensai che fosse la persona giusta, per capire il progetto e fornire il cosiddetto valore aggiunto. Lui stesso ha trovato molto affine il mio modo di scrivere al suo, anche se forse i nostri cuori battono a velocità diverse. Il suo apporto a tutto il lavoro ha permesso di impreziosire tutto il lavoro, senza snaturare l’essenza originale che rimane istintiva e sincera. Ovviamente è stato un vulcano di idee ed intuizioni che abbiamo assorbito, fatto nostre e sviluppate al meglio.

RS. Solo aggettivi per descrivere il disco e le undici tracce del vostro album, potete andare in ordine o anche random e apostrofarne solo qualcuna o tutte quante.

PO. Passione e poesia. Sono gli uniche due parole che mi sentirei di usare per descrivere tutto il disco. Se dovessi ridurre a dei semplici aggettivi tutte le tracce dell’album, rischierei di approssimare troppo i contenuti che abbiamo cercato di esporre nei brani. Posso dire che quasi tutti i pezzi rappresentano trasversalmente più sentimenti, quali il tormento, come in “Spine”, l’odio, come in “B.”, la bramosia de “Le notti bianche”, la dolcezza come in “Fino alla fine del mondo”. In molti casi, il tutto condito in maniera moderatamente dissacrante ed ironica, in modo che non si rischi di venire presi troppo sul serio. L’equilibrio nel modo in cui si esprimono dei concetti, credo che sia molto importante, per far si che risultino credibili .

RS. Musica o testo? cosa parte per prima nel vostro modo di comporre?

PO. Anche in questo caso, una regola, per me, non esiste, ci sono canzoni nate con un’emorragia di parole come “Le Notti Bianche”, oppure “Fino Alla Fine Del Mondo” ed altre in cui melodie ed armonie si sviluppano in testa e sfociano in brani come “Va Giù (Vajont)”. Credo che questo modo di comporre, senza schemi o preconcetti, produca qualcosa che soddisfa sia chi crea che chi ascolta, poichè si percepisce sincerità e purezza. L’unico metodo di composizione che ancora utilizzo, è di valutare quello che scrivo il giorno dopo: se mi sembra una sciocchezza, probabilmente è da scartare.

RS. Qual è il rapporto con la forma CD per una band italiana che inizia nel 2011 la carriera discografica in un mondo dominato da pc, iPod e Mp3?

PO. Non è facile rispondere ad una domanda come questa, perché ha delle chiare implicazioni sociali, complesse per poterle definire in poche parole. Siamo di una generazione in cui la musica, come qualsiasi altra forma d’arte, viene considerata tale, e non semplice intrattenimento. Il nostro mondo perfetto sarebbe quello in cui la gente si ferma, si mette sul divano e per quaranta minuti ascolta un disco per il piacere di farlo, non mentre è distratta da altre mille cose. Siamo ancora legati al feticcio, ad avere in mano qualcosa da toccare, vedere, leggere. Qualcosa che sia reale e tangibile. Com’è logico che sia, i tempi cambiano, in meglio e in peggio, abbiamo semplicemente realizzato un prodotto coerente con il nostro modo di concepire la musica, ossia come forma d’arte e non come semplice svago.

RS. Parlando di Mp3 e dischi…cosa ascoltate in questo momento? Italiano e straniero.

I gusti dei Piccoli Omicidi divergono. Piergiorgio paradossalmente è l’ascoltatore più dimesso.
Roberto ama le canzoni, non per forza la musica indie, ma la canzoni con le loro melodie e testi: tra i gruppi italiani Zen Circus, Teatro degli Orrori, Paolo Benvegnù e gli immancabili Afterhours. Giulio ascolta Radiohead, Nirvana, ma anche Calibro 35.

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