Paolo Benvegnù – Hermann live
Firenze, Viper, 2 aprile 2011
intervista
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Ormai sono un paio di anni, forse di più, che Paolo Benvegnù ha la volontà, il desiderio, di spersonalizzare il proprio nome, di far si che diventi l’identificativo non di un singolo essere umano, ma di un gruppo di esseri umani che scrivono e cantano “canzoni tristi”, diciamo meglio, “canzoni intense”.
Per poi, un giorno, far sì che possano fare a meno di lui, vederli camminare con le loro gambe. Lui si sarà ritirato a fare il benzinaio, a Lucignano, per permettersi di sapere la sua verità ed arrivare in fondo a tutto ciò che sa, per poi raccontarcelo. Fortunatamente, per adesso, questa sembra una pia illusione, ed essendosi reso conto che Hermann non è il disco definitivo, ha rimandato la decisione.
Intanto “i Paolo Benvegnù” sono una bella realtà musicale. Ma chi sono? Iniziamo presentandoli in rigoroso ordine alfabetico, per cognome e soprannome: Luca “Roccia” Baldini, iperattivo bassista armato di Rickenbacker; Andrea “Drugo” Franchi, batterista ma in realtà multistrumentista; Guglielmo Ridolfo “Ghando” Gagliano, polistrumentista dalla notevole indole rock; Michele Pazzaglia, il fonico-guida. Ad allargare la famiglia contribuiscono i fiati di Filippo Brilli e Simone Chiappelli. Così in occasione del concerto fiorentino del gruppo li ho incontrati al Viper subito dopo il soundcheck, nei camerini per intervistarli, per dare voce a coloro che il titolare per nascita del nome Benvegnù, considera in tutto e per tutto la sua famiglia.
Come nasce il nucleo dei Benvegnù di Hermann?
Guglielmo: Andrea ha conosciuto Paolo una decina di anni fa, quando ancora suonava con Marco Parente e li è scattato qualcosa di importante perché Andrea è ancora qui, nonostante tutto. Poi sono arrivato io, mentre portavamo in giro Piccoli Fragilissimi Film. Poi si è inserito Luca, a metà tour come tour manager, fino a sostituire Gionni (Dall’Orto) in quella formazione nel ruolo di bassista. Poi il quintetto si è trasformato in trio. La prima idea di suonare tutti insieme come formazione nasce da poco prima di 14-19 (E.P. del 2007), in quel periodo alcuni era già lontani dal cuore di Paolo ed addirittura ufficializzò la cosa con delle dichiarazioni. Io continuavo a fare il fonico, ma parallelamente suonavo con Andrea in un progettao creato lì per lì. Mi chiese di suonare e per un po’ rimanemmo in quattro sul palco. Il fonico divenne Francesco Cipriani, detto Cicciuzzo, poi Marco Posocco, detto la Nonna. In quel periodo si avvicinò anche Michele che conobbe Paolo durante la produzione di un gruppo che si chiama Moleskin, un gruppo di Città di Castello. Piano piano, queste scorie radioattive intorno a Paolo, hanno preso la forma attuale. Dopo abbiamo fatto Le Labbra. Il nucleo era ormai definitivo, con l’avvicinamento di Igor Cardeti come tour manager. Finito di registrare il disco, ci siamo posti il problema di come proporlo dal vivo. Avevamo voglia di un altro polistrumentista, fiati, archi ed Igor ha iniziato a suonare la chitarra con noi. Per fare Dissolution abbiamo creato il gruppo con tre fiati e tre archi, con il quale abbiamo fatto tre concerti.
Ma da quand’è che si parla nei termini di “ i Paolo Benvegnù” con la spersonalizzazione del nome del cantante in quello del gruppo?
Guglielmo: tutto nasce da Paolo e pensavamo che avesse iniziato a parlare con il plurale maiestatis, come Imperatore dell’Indie di Prato. Ripeteva sempre questa cosa, in continuazione, ed all’inizio eravamo piuttosto scettici a riguardo. È vero che abbiamo sempre condiviso tutto con Paolo.
Luca: è anche vero che siamo comunque una “famiglia”. Ci conosciamo tutti talmente bene, che veramente potremmo condividere lo stesso cognome.
Michele: la forma definitiva e la convinzione di esserlo anche per noi nasce con la produzione di Hermann.
Guglielmo: io ero il più scettico perché in fondo Paolo Benvegnù è Paolo, le multe arrivano a lui. Dopo la gestazione di Hermann, per la situazione che si è creata, ora ne sono convinto anch’io.
Andrea: anche perché stavolta, rispetto al passato noi, abbiamo messo di più nel disco. Stavolta l’importanza del gruppo è stata pregnante e fondamentale. Per la scrittura, per gli arrangiamenti, di unità, di presenza…
Luca: … di tempo passato insieme. Abbiamo fatto una preproduzione di un mese prima di andare a registrare in quasi completo isolamente e convivenza.
Michele: per la prima volta abbiamo vissuto e fatto cose insieme, cose collaterali alla musica, come cucinare, fare il fuoco, gestire una casa. Andrea cucinava.
Guglielmo: è una famiglia molto allargata con tanti parenti sparsi e vicini.
Vi presentate spesso sul palco, ed anche una volta scesi dal palco, in maniera molto ironica e divertente. Mentre il contenuto delle canzoni è tutt’altro che divertente e spensierato. Una specie di contrario del comico che nella vita pubblica è estremamente divertente, ma perennemente triste nella vita privata?
Guglielmo: quando c’è da dire una cosa seria, la diciamo, sempre. Ma non possiamo essere sempre seri.
Luca: noi siamo molto naturali, nel momento in cui ci viene di dire la fesseria la diciamo.
Andrea: ma ti riferisci ai concerti o nella vita normale?
Mi riferisco ai concerti o ad esempio agli episodi come Camerieri dove il contenuto delle canzoni non è in sintonia con il modo di presentarsi, molto divertente. Mi sembra che questo spirito, sul palco ci sia sempre.
Luca: Camerieri era una provocazione: è sempre difficile farsi vedere sopratutto in Italia. Far vedere il lavoro che fai. Soprattuto è più difficile se sei un “cantautore triste”, che ci dice quanto sta male nella vita o quanto possiamo star male e non riusciamo a star bene. Abbiamo provato a fare cose strane per farci notare.
Il vostro punto di forza è sicuramente l’unione, ne avete punti deboli?
Michele: Per fortuna sì!
Guglielmo: Fondamentalmente è vero che singolarmente suoniamo da tanto e che anche come gruppo suoniamo da tanto insieme. Con Hermann è la prima volta che affrontiamo il palco con una diversa serietà, soprattutto, anzi, quasi esclusivamente da un punto di vista tecnico organizzativo. A suonare siamo sempre stati bravi, nessuno può dire il contrario, però ci siamo accorti e ce l’hanno fatto capire e detto, che avevamo questa reputazione di “scazzoni”: arrivavamo in ritardo, alla rinfusa, soundcheck confusionario. Allora abbiamo deciso di cambiare e diventare bravi anche sotto questo aspetto. Abbiamo coinvolto delle persone, a parte i due fiati che artisticamente hanno ampliato le nostre possibilità, come Enrico Boschi, che nel ruolo di tecnico di palco ci aiuta in maniera determinante ed importantissima, facendo per noi quelle cose tecniche, che noi proprio tralasciavamo. Così ci consente di concentrarci sul nostro essere musicisiti live veri. Sembra poco, in realtà è un aiuto importantissimo.
Luca: Enrico e tutti gli altri ci danno una professionalità che prima ci mancava sul palco. Noi siamo anche più sicuri, perché qualsiasi cosa accada, sappiamo che c’è Enrico che ci può dare una mano. Il nostro più grande pregio, ed al tempo stesso difetto, è la nostra grande disponibilità verso tutto e tutti. Anche Paolo sta delle ore a parlare con tutti, anche al costo di non avere la voce il giorno dopo per quanto ha parlato. É una cosa bellissima, ma credo che dovremmo iniziare a risparmiarci un po’, avendo concerti quasi ogni giorno. Anche perché non dobbiamo rendere conto solo a noi stessi, ma ci sono altre persone alle quali dobbiamo rendere conto.
Pensate quindi che forse sarebbe meglio creare un po’ di separazione tra voi ed il pubblico, cosa che adesso manca totalmente. Non dico mettervi su un piedistallo…
Luca: … non vogliamo metterci su un piedistallo, quello non lo vogliamo fare.
Guglielmo: invece, non dico che vorrei farlo, però l’eccesso di comunicazione, sempre e comunque, è un difetto dei Benvegnù, ma più di Paolo. Lui è un comunicatore meraviglioso, con i testi e con la voce, con le canzoni ma anche quando lo senti parlare. Però quando dai troppo, alle volte confondi anche. Quando entri in un flusso di parole, come è capace Paolo di fare, rischi di dire troppo, di contraddirti, di dare una sensazione sul palco ed un’altra quando scendi. Può essere un gioco interessante. Io ho un estremo fascino di gruppi che, alcuni dicono, “se la tirano”. Non credo sia una questione di tirarsela, quanto di proteggersi. Penso al Teatro degli Orrori dal vivo: possono aver fatto un concerto che si sentiva malissimo, però quando li guardo penso “questi spaccano”. Ma non è una questione di essere vestiti di nero ed incazzati. È una questione più del tipo “ti comunico finché ne ho voglia io”, nel momento in cui stacco, stacco. Ho scritto un disco, mi ci è voluto 4 mesi, te sei stato in cucina a fare il cameriere. Questa è la nostra differenza. Un po’ di questa attitudine ci vuole. Che poi, una volta sceso da questo palco, forse, sono il più coglione fra tutti quelli che sono venuti a vedere il concerto.
Luca: l’esempio pratico è successo nei primi due o tre concerti di questo tour, alla fine dei quali il pubblico ci chiedeva come mai non parlassimo più tra le canzoni o non facevamo battute, gli spiritosi. Perché è ciò che la gente s’aspetta perché l’ha sempre visto. Ora non lo facciamo perché siamo concentratissimi sui brani. È un disco molto difficile.
Michele: mettici anche tutta la produzione visuale in sincrono per il concerto. Siamo anche molto più decisi nel volerla far vedere. Prima tutti i momenti di ilarità sembravano quasi dover per forza spezzare la drammaticità del momento.
Con Hermann sarebbero fuori luogo.
Guglielmo: infatti, tra un pezzo e l’altro, mentre dietro scorrono le immagini in sincronia millimetrica, studiate apposta, tutte calcolate, parola per parola, poi che faccio? racconto una barzelletta? Non puoi essere ridicolo, non puoi esserlo sempre. Ci vogliono simpatici. Ti posso dire che non sarò antipatico, ma simpatico non ti garantisco di poterlo essere sempre e per forza. Inoltre, in particolare Paolo e Andrea, ma in realtà tutti noi, quando siamo sul palco, in questo tour, stiamo raccontando al pubblico delle cose nostre, molto intime, cose che si nascondonoin fondo al nostro animo, che magari non abbiamo detto neanche alle nostre madri. Poi che faccio? esco e faccio il cretino? Allora tu a chi credi? A me sul palco che sono sincero, o a me giù dal palco che faccio il buffone?
Entriamo in Hermann: avevate le idee chiare su quello che sarebbe successo sin dall’inizio della produzione?
Luca: ognuno aveva la sua idea è questo è stato il dramma iniziale. Quel mese a Cincelli (località in provincia di Arezzo, dove il gruppo ha convissuto durante la preproduzione n.d.a.) è servito moltissimo a chiarirci le idee. Perché c’erano i provini, soprattutto chitarra e voce. Non abbiamo fatto molte cose, abbiamo suonato e non suonato, ma c’ha dato la direzione.
Andrea: psicologicamente per questo disco ci siamo preparati prima, ma prima addirittura di avere i pezzi. Ci siamo parlati tra di noi, non necessariamente tutti insieme, ed abbiamo portato alla luce tutta una serie di piccoli difetti che avevamo. Non difetti grossi. Ci siamo confrontati su come avevamo intenzione di suonare ognuno il proprio strumento. Il tipo di approccio che ognuno di noi voleva o doveva avere. Approccio di assoluto rispetto nei confronti dell’altro ed allo stesso tempo di apertura totale.
Guglielmo: la differenza fra Le Labbra ed Hermann, sta nel fatto che ognuno di noi si è posto un obiettivo e più o meno l’abbiamo raggiunto. Le Labbra è nato più pezzo per pezzo. Pensavamo al ritornello di ogni canzone, come l’inventiamo la strofa? Ed il finale? Partivamo aggiungendo una nota, come esempio prendo la chitarra. Non basta, allora aggiungo il delay. Non basta, allora aggiungiamo un vibrafono campionato e poi un pianoforte. In Hermann, parlo sempre delle chitarre, ma vale per qualunque altro strumento, io mi sono imposto di cambiare il modo di suonare. Non perché ho fatto ottanta dischi e voglio cambiare. Ne ho fatti due di dischi. Avevo voglia di suonare con suoni più acuti, meno distorti, assolutamente senza delay, usato pochissimo. Pensa che io ci sono nato con il delay, ne ho abusato. Proprio per riuscire a fare una cosa molto più netta, meno ibrida, con l’idea di fare un disco rock.
Andrea: …con l’idea principale di non nascondersi dietro a degli orpelli che alla fine fanno fare bella figura, ma non fanno capire come realmente suoni.
Guglielmo: …e poi è suonato tutto con la stessa idea dall’inizio alla fine, ed è la nota di produzione più importante. Questa cosa me l’ha ispirata In Rainbow dei Radiohead, che ha un’idea di produzione che mi ha ispirato molto: suono la chitarra rock? in un gruppo rock e non in una orchesta sinfonica? Bene, questa chitarra deve essere rock dall’inizio alla fine, nel bene e nel male. Facendo così ci siamo resi conto che i pezzi funzionavano. Poi noi, ma soprattutto Paolo, ha sempre la paura del vuoto, che i pezzi non si reggano e tendiamo a riempire. È un difetto del gruppo e su questo possiamo migliorare molto. Siamo riusciti comunque a fargli capire che non c’è bisogno di riempire sempre tutto, di avere sempre qualcosa che canta, anche perché le 150mila parole dei suoi testi, tutte significative, melodie importanti, chitarra, basso e batteria che spaccano, è sufficiente!
Andrea: direi che siamo arrivati al 70% di quello che si voleva ottenere, si poteva fare ancora più asciutto, proprio per dare risalto a questi testi filosofici di Paolo.
A proposito dei testi. Questa volta avete anche dato un contributo diretto. Anche nel loro significato?
Luca: in realtà noi siamo più come un pubblico. Sicuramente condividiamo le cose, abbiamo scritto, contribuito, fatto leggere a Paolo. Guglielmo ed Andrea hanno proprio partecipato alla stesura di alcuni brani. Chiaramante ognuno di noi, in ogni brano ci vede la propria esperienza. Come chiunque ascolti questo disco. C’è un filo conduttore, che è l’uomo. Ed è la linea principale che seguiamo tutti. Però è importante che ci si veda noi stessi, la nostra esperienza. Se non fosse così, non li suoneremmo neanche.
Michele: questa è la forza di Paolo: ci sono un sacco di testi che per me parlano di qualcosa che non è neanche vicino a ciò che ci ha spiegato Paolo.
Andrea: … e viceversa.
Guglielmo: non sempre siamo in accordo con quello che scrive, però condividiamo il fatto che lo possa dire e pensare. Ad esempio, l’interpretazione che lui ha dato del brano di Andrea, e del mio in particolare, è completamente sbagliata, nel senso, non è ciò che io pensavo mentre la scrivevo. Lui ci ha visto Narciso, cosa alla quale non ho mai pensato. Però poi lo senti come lo interpreta e come lo racconta e pensi: cazzo, bello, speriamo succeda di nuovo, mille volte! Secondo me, anche quello che scrive lui, lo scopre pian piano quello che voleva dire, alle volte lo scopre alla fine.
Andrea, ho notato che la canzone scritta da te, L’ Invasore, dal vivo la interpreti in maniera più dura rispetto a quella sul disco. Come mai?
Andrea: Non c’è una ragione di fondo. È vero, sul disco è più morbida, perché serviva così. Davanti ad un pubblico, magari forse sbagliando, io voglio che queste parole buchino il cervello delle persone. Proprio perché per me sono forti, tant’è cha a volte mi emoziono. Fortunatamente le ultime due o tre volte non è successo, perché voglio eseguire il pezzo bene dall’inizio alla fine. Allo stesso tempo sono parole che mi toccano. Anche Michele l’altra sera m’ha detto di ammorbidirla un po’, quindi stasera non forzerò come le altre volte.
Michele, Paolo si riferisce a te un po’ come un punto di riferimento, un faro, o comunque l’elemento che serve al gruppo a rimanere sulla rotta giusta. Ti riconosci in questo ruolo?
Michele: forse da una parte sì. La mia fortuna, e sfortuna, è che non sono così erudito musicalmente come loro e quindi mi attacco più ai sentimenti ed alle emozioni che alle capacità tecnice di chi suona. Poi, non suonando, non sono coinvolto in prima persona nella difesa di una parte di chitarra o di basso o quello che vuoi te. Per il ruolo proprio che ho sono anche costretto a relazionarmi con loro prima singolarmente e poi come gruppo.
Guglielmo: non voglio fare una sviolinata, ma il discorso di Michele come faro non riguarda solo la parte tecnica musicale, ma anche dei rapporti interpersonali. In un qualunque gruppo familiare o musicale come il nostro, dove si cresce insieme, in un’età compresa tra i venticinque ed i trent’anni, dove ancora possiamo diventare qualunque cosa, con queste persone possono anche arrivare dei momenti di tensione personali. Ce ne sono stati, ce ne saranno. Bene o male, limando, puoi assestarti. In certi momenti non basta limare. Allora ci sono due metodi: o ti allontani, autonomamente o invitato, ed è capitato anche ultimamente. Oppure ti affidi a persone terze, anche se terze nel nostro caso non è la parola giusta essendo lui nel gruppo. Michele ha sempre dato questa situazione di tranquillità. Non ha mai avuto un atteggiamento aggressivo come posso avere io verso il Roccia o viceversa. Il fatto di essere in tanti, ti distrae dall’errore che può fare uno di noi. Se fossimo ancora solo in quattro, non credo che avrei resistito molto.
Luca: adesso l’errore, se c’è lo esaltiamo e ci ridiamo sopra.
Guglielmo: ora che siamo in otto, la sdrammatizazione è immediata. Basta che ci sia qualcuno che ti dice, lascia perdere, andiamo a bere una birra. Non è un cavolata, è importante.
Sì, tutto bello il gruppo coma una famiglia, ma chi è il leader?
Tutti: Paolo, assolutamente, ci mancherebbe!
Io avrei detto Andrea.
Guglielmo: se guardi bene ognuno è leader nel suo frangente. Paolo è quello che prende le decisioni, l’80% di volte sbagliate (risata generale!) e tocca a noi riparare. Con la sua irruenza sbaglia. Ma è la stessa irruenza che gli permette di scrivere quello che scrive. Noi lo prendiamo per il bavero perché siamo una “famiglia”. Se fossi il chitarrista tournista me ne fotterei, oppure Paolo avrebbe tutto il dirittto di dirmi “Ti pago, fai quello che ti dico!”. I litigi che avvengono in questo gruppo, spesso sono fatte di parole forti e sono veloci, di quelle che in tre millisecondi hai quattro morti. Noi abbiamo la confidenza per farlo, ma Paolo è il leader riconosciuto. Ovvio che se voglio fare una cosa ti convinco a farla. Così tutti. Ma alla fine se c’è da prendere una decisione non chiediamo che sia il Druga (Andrea) a prenderla. Anche se c’è da dire che sul palco è effettivamente lui il leader, perché se vuole può decidere di cambiare la velocità e l’intensità dei brani, e chi guida è lui.
Durante la fase di preproduzione e registrazione avete fatto uso di un blog per mantenere il contatto con il resto del mondo o per altre ragioni?
Guglielmo: è nato dall’idea che io ho fatto due viaggi belli in vita mia: il viaggio di nozze ed il tour con i Tuxedomoon. Con i Tuxedomoon ero molto spesso solo, ed avevo voglia di scrivere delle cose per farle leggere a Spinella (la moglie di Guglielmo) che era a casa, ed un piccolo vezzo creativo. Il viaggio di nozze l’ho fatto per coinvolgere gli amici, far vedere loro delle foto, un altro piccolo vezzo creativo. Stavolta, più o meno è la stessa cosa. Avevo voglia di confrontarmi con altre persone che l’avevano già fatto, con le foto, i video, e mi piacevano molto, li guardavo con attenzione. Mi sembra sia una forma bella di comunicazione, alla quale hanno poi partecipato anche gli altri. Vorrei farla anche per il live, ma sono pigro ed ancora non ho iniziato. I video spesso erano una forma di puro divertimento. In ogni caso fa tutto parte di una voglia di farsi notare, di far sapere agli altri quello che stai facendo, però anche una forma comunicativa che a volte è sottovalutata. Penso che Paolo questa cosa non l’abbia capita. Non ha partecipato per sua indole, ma secondo me l’ha valutata solo come forma di atteggiamento. Mentre sono dell’opinione che anche quella cosa è servita a mantenerci “musicalmente vivi”. Noi potevamo essere musicalmente morti un anno fa.
Luca: non voleva essere una cosa presuntuosa, era una cosa naturale. Cioè, abbiamo fatto vedere tranquillamente ciò che facevamo in diretta. Non ci preparavamo per la messa in onda.
Andrea: dopo una cert’ora era anche un po’ da censura. La mia compagna m’ha detto più volte “troppo, esagerati, esagerati!”
Guglielmo: avremmo potuto farlo anche più bello. Non l’abbiamo certo inventato noi. Sapevo che già l’avevano fatto, ma è sempre in linea con l’idea che noi suoniamo per gli altri, per comunicare, per esprimere dei pensieri perché arrivino a quelle cinque, sei, dieci persone, delle quali otto femmine (risatina!) che ci ascoltano, quindi è solo un prolungamento della nostra forma comunicativa. Probabilmente, forse, tra dieci anni quando non suoneremo più insieme, spero di no, avrò più piacere a rileggere il blog che a riascoltare il disco, che come al solito è fatto di lacrime e sangue: tempi brevi, pochi soldi, mille errori. Invece il blog è un po’ come i Diari della Motocicletta del Che, a cosa servivano? Sapeva che voleva lasciare qualcosa a qualcuno. Io nel mio piccolo penso sia così.
Pensate che Hermann crescerà durante il tour in maniera diversa da come è nato?
Luca: è già successo, si mischierà con il passato e con il futuro, assolutamente. Adesso lo stiamo eseguendo come una storia. Prima o poi questa storia si dovrà mischiare con il passato ed il futuro. Sarà il prossimo passo.
Guglielmo: D’estate, sicuramente d’estate cambierà qualcosa in Hermann.
Così, in attesa di vedere quale sarà l’evoluzione del “bambino” Hermann, un Viper stracolmo segue con attenzione lo svolgersi della storia dell’uomo attraverso parole e immagini, quest’ultime curate da Mauro Talamonti di Capicoia, che in sincrono arricchiscono e interpretano il significato delle canzoni. Non c’è pausa tra una canzone e l’altra, la concentrazione è altissima. Poche luci, molte emozioni. Andrea Franchi, da solo sul palco, canta una delle sue canzoni dell’album, L’invasore, l’ultima, ovviamente. L’emozione diventa commozione, soprattutto per chi vive quotidianamente quelle parole. Tornano sul palco e Paolo Benvegnù esce dai panni di Hermann, simbolicamente rappresentato da un cappello a tesa larga: Cerchi nell’acqua, Rosemary Plexiglas, Io e il mio amore, Il Mare Verticale, La Schiena e Troppo Poco Intelligente sono le canzoni scelte per ricordare il passato, che non è stato altro che il lungo periodo di gestazione di Hermann. Dopo le parole delll’intervista, ho nel concerto la conferma di ciò che ho sempre pensato: i Benvegnù, Paolo compreso, probabilmente sono ciò che loro spesso cantano, stelle che si attraggono per esplodere e creare.
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