Guns ‘n’ Roses: Chinese Democracy

Difficile definire Chinese Democracy, l'attesissimo e travagliato nuovo album dei Guns 'n' Roses (leggi Axl Rose), ricco di contaminazioni tra generi e suggestioni elettroniche

Guns ‘n’ Roses

Chinese Democracy

(Cd, Geffen Records, 2008)

hard rock

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Devo premettere che non sono mai stata una grande fan dei Guns ‘n’ Roses e dunque recensire questo disco con obiettività non è stato facile. Sicuramente l’uscita di questo album renderà felici i fedelissimi in attesa da quindici anni di un nuovo album da studio. La tappa più recente nella carriera discografica dei Guns ‘n’ Roses è infatti The Spaghetti Incident?, che risale al lontano 1993. C’è da chiedersi se Chinese Democracy valga tanta attesa.

Chinese Democracy ha avuto una gestazione difficile e turbolenta, che ha visto completamente stravolta la line-up originale della band (restano Axl Rose, ovviamente, con il suo ego ingombrante, ed il tastierista Dizzy Reed), costi da capogiro, data di pubblicazione continuamente rimandata o smentita, diverse versioni e fasi di lavorazione dei brani filtrati in internet (creando una gran confusione).

Un album barocco, roboante e iper-perfezionista, con degli spunti interessanti e una buona dose di autocompiacimento, sicuramente da ascoltare con attenzione senza farsi sviare da pregiudizi o, al contrario, da aspettative.

Pur non essendo un amante dell’inconfodibile falsetto e degli acuti cosmici di Axl Rose, la sua performance vocale qui è di buon livello, come è di un ottimo livello tecnico tutto l’album. Nonostante ciò, non tutto è coinvolgente, alcuni brani e passaggi sono troppo ad arte per essere freschi, per prendere allo stomaco. Alcune parti sono decisamente noiose e poco originali, danno la sensazione di un compito in classe ineccepibile.

Per quanto riguarda i brani, si va dai trascinanti Better e Catcher In The Rye, potenziali hit (e non è detto che sia un complimento): il primo si apre con un morbido canticchiare, poi diventa allo stesso tempo aggressivo e orecchiabilissimo; il secondo, è a tratti quasi psichedelico, un disteso pianoforte in apertura di quella che è una specie di ballata aspra che poi diventa liquida e misteriosa.

C’è molta elettronica nella title-track, Chinese Democracy, uno strano mix distorto e non privo di fascino, sembra del rumore di fondo sputacchiato fuori da una radio scassata, un rumore che si fa man mano più cupo ed aggressivo, con un tappeto sonoro di chitarre distorte. Irs è suadente e morbida, voce acutissima e chitarra liquida, dal suono barocco, gioca sull’alternarsi di asprezza sonora e melodia.

Madagascar è uno strano esperimento dal tono quasi orchestrale ed epico: inizia con un inno d’organo, marziale e funereo, che introduce un brano teso e distorto. Spuntano poi delle percussioni tribali e la voce registrata di Martin Luther King, il suono si fa cupo e minaccioso.

Il disco procede tra pigli acidi e stralunati, chitarre taglienti e acute e, a tratti, toni epici.
L’album è talmente sovraccarico e perfetto che alla fine lascia con il bisogno di ascoltare qualcosa di totalmente scarno e frugale, per assorbire la sovrastimolazione ricevuta.

Ma resta il fatto che presto o tardi vi ritoverete a pensare o canticchiare stralci dell’album: rimarrà con voi, che vi piaccia o meno.

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