Alice In Chains, Milano Palalido 2 dicembre 2009: Live Report

Devastante ritorno sulle scene per gli Alice in Chains: recensione, impressioni e divagazioni grunge sul concerto a Milano del 2 dicembre. Unica data sullo stivale. Flanella e anfibi per chi non si è dimenticato di Cantrell e soci

Alice In Chains

Milano Palalido, 2 Dicembre 2009

live report

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aliceinchains09Sono cresciuto a pane e Dirt, giudico il primo lavoro Facelift uno dei migliori esempi di hard rock moderno, l’Mtv Unplugged mi ha scandito alcuni momenti degni di essere ricordati, mentre l’omonimo Alice in Chainsè la mia personale summa di ipnotismo musicale, non pago, i due ep Jar of Flies e Sapsono forse i cd che ho ascoltato più spesso in assoluto.

Insomma, per il sottoscritto il parto di questo manipolo di eroinomani pallidi è più meritevole di accompagnarmi sulla tanto inflazionata isola deserta di un qualsiasi disco di … chessò?… i Led Zeppelin (ognuno ci porta quello che vuole).

– Dario, credo che gli Alice ormai ce li siamo giocati!

– Guarda, andando a questo concerto dimostro di non essere il grande fan che credevo, ti  immagini i Pearl Jam senza Vedder?

– Cavolo no!

Questo semplice scambio di battute con un vecchio amico di scorribande musicali ha rappresentato più o meno lo spirito con il quale mi sono confrontato con i nuovi AIC nel corso di questo autunno, per chi non lo sapesse, una buona parte della band è stata seppellita il 5 aprile 2002, quando moriva di overdose Layne Staley, un tizio che l’Espresso aveva blandamente definito “Il piccolo Cobain”, quello che possedeva uno degli urli più potenti della decade e non solo, insomma uno di quelli come non ce ne sono più in giro.

La domanda è: il nuovo vocalist Will DuVall che voce ha? (esteticamente una sorta di Lenny Kravitz  con meno steroidi e cocaina addosso), perchè praticamente tutto il disco è cantato dal chitarrista Jerry Cantrell.

Il tour è in promozione del nuovo Black Gives Way To Blue, lavoro che inizialmente giudicavo buono, ma di poco più interessante di un disco solista del factotum Cantrell. In seguito le sue quotazioni sono cresciute, ma mi hanno più fatto credere ad una svolta maggiormente autoritaria del ruolo del chitarrista all’interno degli equilibri del gruppo.

Detto questo, dopo la felice discesa nel nostro paese dei Dinosaur Jr, la città di Milano questa sera ospita ben due concerti per vecchi inflanellati. Tutti quelli che pensavano questa band commercialmente defunta, calcolino che inizialmente il concerto si doveva tenere all’Alcatraz, capienza massima 2700 posti. In seguito per l’eccessiva richiesta di biglietti è stato spostato al Palalido, circa 5000 posti, ma alle 18.30 un cartello sui cancelli annuncia che i biglietti  sono stati esauriti già in prevendita, con consequenziali gruppi di bagarini che si muovono voraci tra le code.

Con il senno di poi si può facilmente ipotizzare che con un minimo di pubblicità in più, (ho visto ben pochi manifesti in giro), la band avrebbe potuto esibirsi benissimo in un posto come il Mazda Palace.

Varco le soglie del palazzetto in preda a dubbi amletici, penso a come Lester Bangs prendeva per il culo Luo Reed, ma al contempo lo amava. La variopinta platea mi riporta sulla terra, facendomi inorridire alla vista di ragazzini con le maglia di gruppi death metal, sicuramente avranno sentito alcune sonorità di Dirt e del disco Omonimo e avranno fatto il fatidico 2+2. C’è qualche nostalgico in camicia a quadri (come il sottoscritto) e persino un tizio sosia di Marilyn Manson, con tanto di trampoli ai piedi.

La mia macchina fotografica fa pena, faccio due foto alla strumentazione sul palco (inquietanti muri di Bogner e Ampeg sovrastano un palco giustamente sobrio) e cerco un posto sulle gradinate laterali, si vede bene e  non voglio rovinare i miei averi nello zaino tra il tritacarne del pogo.

Dietro di me si apposta una delegazione di inglesi con tanto di birre e panetta di fumo, se il mio inglese non fosse così pessimo gli chiederei che cavolo c’è dentro i panini che stanno mangiando e dove il tizio ha comprato quel maglione alla Freddy Kruger che aveva anche Cobain.

Quando gli Alice salgono sul palco ci accorgiamo subito che la band si è tenuta in forma, devo dire anche fisicamente. Cantrell scarica sulle corde il riff iniziale di quel mattone che è Rain When I Die e la band lo segue facendo ripiombare tutto nel 1992. L’acustica è più che buona e il pubblico rimane ipnotizzato da quelle sonorità che aspettava di sentire live da una vita intera.

Quasi subito mi devo arrendere all’evidenza: DuVall è un’ottimo cantante, un buon chitarrista e un intrattenitore navigato, assume pose da rocker vissuto (ma non paraculo), cercando sempre nella giusta misura il coinvolgimento della platea.

Vocalmente, quando si tratta di riproporre il vecchio repertorio della band, dimostra di essere un sorprendente imitatore di Layne, se sul disco non possiede ancora (e forse non avrà mai), le capacità per creare architetture vocali di simile intensità, dal vivo un’ ampia estensione ed un timbro malleabile gli consentono di interpretare i difficili brani degli AIC in maniera più che dignitosa.

Buona parte dei paganti canta come un karaoke le vecchie Them Bones, Dam That River e Again,suonate con distorsioni mastodontiche e con un’ottimo DuVall, che ha il tempo per affacciarsi sulle transenne e dialogare fisicamente con le prime file.

Arriva il nuovo singolo Check My Brain, come sul disco viene cantato da Cantrell, già si sente aria di nuova hit.

I primi veri brividi li sento con Love, Hate, Love, vocalmente un po’ il manifesto di quello che la voce di Layne era in grado d’offrire. Il buon Duvall si concentra e toglie fuori una timbrica scandalosamente vicina a quella del suo predecessore, tra arpeggi ipnotici e urla ruvide si scatenano sentiti applausi già a metà del brano. Mando degli sms increduli al mio amico di scorribande e cerco di fare delle foto, ma la mia macchina continua a fare schifo.

Con il senno di poi Layne dimostrava di andare di stomaco, mentre Duvall va di testa, ma i risultati per le orecchie sono ottimi.

L’esibizione non cala di intensità, sul palco compaiono tre sgabelli e si apre un siparietti acustico con un’esecuzione di Down In a Hole da manuale, seguita dall’altrettanto sentita No Excuses e dalla nuova Black Gives Way To Blue, una parentesi accolta in modo più che caloroso dalla folla.

Il concerto continua sempre su livelli alti, fino a culminare con gli inni della generazione X: We Die Young e Man in the Box.

Il pubblico richiama la band a gran voce, c’è ancora tempo per Would? e Rooster prima che tutto finisca. Quando DuVall intona l’urlo “lo sai che lui non morirà” all’inizio del brano mi si gela il sangue, dopo diciannove brani la voce dell’ultimo acquisto non è calata di una sola tacca.

DuVall è stata un’ottima scelta, alcune band riformandosi hanno cercato personaggi commercialmente più di spessore, Scott Weiland per i Velvet Revolver o Chris Cornell per gli Audioslave, con risultati spesso mediocri (soprattutto in sede live). Gli Alice invece, giocando la carta dello sconosciuto di talento ne hanno brillantemente guadagnato.

Esco dirigendomi verso la metro felice per il grande spettacolo (durato quasi due ore) e per il plettro che sono riuscito ad afferrare alla fine.

Un’esibizione che ci presenta degli Alice in Chains ancora dignitosi e lontani dall’ essere una cover band di se stessi. Attendiamo che DuVall cresca anche sotto il profilo compositivo, aspettandoli fiduciosi al varco di una nuova prova discografica e magari di un altro concerto altrettanto intenso e sudato.

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