Slipknot: recensione di The End, So Far

Gli Slipknot tornano con un nuovo disco prodotto da Joe Barresi. Il sound, però, è poco convincente.

Slipknot

The End, So Far

(Roadrunner Records)

thrash metal

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Gli Slipknot non hanno bisogno di presentazioni, il loro nome è conosciuto ovunque e la gigantesca schiera di fan mette i brividi. Non solo. Il gruppo capitanato da Corey Taylor, insieme ad altri big come Korn, System of a Down, Deftones e Limb Bizkit pianta le radici in quello che è il Nu Metal anche se la band non lo ammette e non si riconosce in esso. La compagnia Knot, comunque, si è sempre distinta su ogni album offrendo cosi, prodotti appetibili e qualitativamente buoni, questo almeno fino al penultimo We Are Not Your Kind.

Oggi nello stereo ci troviamo ad ascoltare The End, So Far, il loro settimo disco pubblicato tramite Roadrunner Records e prodotto da Joe Barresi (Kyuss e The Bronx). Il platter contiene dodici tracce, purtroppo non proprio in stile Slipknot, infatti, manca quell’aggressività e quel sound grezzo che tanto piaceva. Insomma, questa volta il gruppo mascherato ha proposto un lavoro in un certo senso piatto dove non c’è nulla di nuovo, anzi, sembra quasi che abbiano trovato la loro formula senza volerne discostarsi, se consideriamo anche il disco precedente.

È chiaro che dischi come Slipknot Iowa difficilmente torneremo ad ascoltarli, anche perché negli anni ci sono stati diversi cambi di line up che hanno influito sul modus operandi del gruppo, ma trovarsi un lavoro simile, in parte scontato e banale, mette un po’ di tristezza.

Ritornelli puliti e suoni troppo limpidi caratterizzano questo The End, So Far e onestamente tutto ciò lascia un senso di nostalgia indescrivibile.

Analizzando alcuni brani ci accorgiamo come la band statunitense si è in un certo modo appiattita: The Dying Song (Time To Sing), che è anche il primo singolo, con il suo ritornello fa comprendere l’andazzo del disco. Stesso discorso vale per Yen, ancor più melodica e con riff decisamente deboli rispetto alla traccia citata prima. Medicine For The Dead è un’altra canzone che non si comprende dove voglia andare a parare, personalmente ho avuto l’impressione di un pezzo degli Stone Sourin versione più aggressivo.

L’unica boccata d’aria del disco è sulle note di The Chapeltown Rag Hivemind, due tracce aggressive che in parte ricordano il vero potenziale degli Slipknot. Tirando le somme credo che questa ultima fatica della band sarà acquistata principalmente dai fan di vecchia data, gli affezionati detto brevemente perché gli amanti del Thrash Metal e del Nu Metal  con molta probabilità esploreranno altri orizzonti.

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Vincenzo Scillia
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