Sacro Ordine dei Cavalieri di Parsifal: recensione di Until the End

Until the End dei Sacro Ordine dei Cavalieri di Parsifal: Heavy Metal is the Law!

Sacro Ordine dei Cavalieri di Parsifal

Until the End

(Underground Symphony)

heavy metal, power metal, epic metal

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Esistono diverse sfumature di grigio quando si realizza un disco di genere come Until the End, il nuovo lavoro dei Sacro Ordine dei Cavalieri di Parsifal.
Si parte dal bianco appena scurito dell’influenza per passare al grigio tenue all’ispirazione, arrivando al grigio pieno del tributo fino al nero pece del plagio.

Il Sacro Ordine si colloca più o meno tra l’influenza e l’ispirazione. Tradotto: c’è personalità in quello che fanno. Già questa è una gran notizia, visti i riferimenti che fanno continuamente capolino nella loro proposta musicale: a parer mio tanti Maiden (soprattutto nel reparto fraseggio e soli delle chitarre) e Manowar (per l’attacco vocale e le linee melodiche). A proposito di linee vocali, quando la voce si scurisce, come nel ritornello di Inside Me (sarò pazzo eh…lo dico in anticipo) ci sento un certo incedere da cantante di band Hardcore di Stampo NewYorkese. Vicino o meno alla realtà che sia, è un elemento che trovo distintivo. Quindi altro punto a favore.

Nella proposta si ritrova facilmente anche il Power&Epic di stampo teutonico che nei punti più arditi, come Black Lion che apre il disco, si ferma una manciata di bpm prima della ferocia supersonica dei vecchi Gamma Ray. Altra notizia buona perchè a leggere il nome ci si potevano aspettare tastiere e arrangiamenti sinfonici altisonanti che hanno fatto il loro tempo, da tempo, e chissà quanto ancora bisognerà attendere prima che qualcuno riuscirà a farne qualcosa di davvero innovativo.

Il disco scivola facilmente fino all’ accoppiata Still Dreaming e Stone River: buono il riff della prima e bellissimo il double stop che apre l’assolo della seconda. Sempre Stone River ottima se pensata in ottica Live con coro delle grandi occasioni. Forse i momenti migliori del lavoro, insieme alla traccia finale.

Doomraiser apre la seconda parte del disco. L’ascolto inizia a farsi “pesante” e la sensazione è che non ci sia più quella messa a fuoco presente nella prima parte del disco.
Anche Seal of Fire parte bene con un ottimo riff a sostegno, stile Maiden periodo Somewhere/Seventh ma bridge, prima, e ritornello dopo dissipano tutta l’aspettativa creata. C’è spazio per una sezione strumentale centrale interessante, ma nel complesso il pezzo non decolla.
Anche Eagle of the Night e Fallen Hero (buono il ritornello ancora, soprattutto se visto in ottica live) non reggono il passo della prima parte del disco.

Until the End chiude il disco ed esibisce l’ultimo tassello di influenze importanti, mancato finora. Ovvero lo slow tempo alla Judas Priest, in special modo dopo il rientro di Halford.

Riassumendo: disco buono nella prima parte, meno buono nella seconda. La composizione, ancora, meglio nella prima parte e apprezzabile lo sforzo di imboccare una strada così battuta da tanti mostri sacri, cercando di trovare la via più personale, evitando accuratamente ogni deriva di plagio. Tuttavia, tale sforzo non sempre riesce benissimo e complice una scrittura ancora appannata, in alcune parti i brani mancano di incisività.

Discorso a parte sul suono. Su tutto il disco grava una produzione che davvero sacrifica e penalizza tutto il lavoro, togliendo la sufficienza al giudizio finale.
Ad ogni modo, la tecnica c’è e si sente. Una messa a fuoco più costante nella composizione e una produzione di livello, se raggiunte, daranno ottimi risultati per i prossimi lavori.

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