Neko at Stella: Recensione disco omonimo

I Neko at Stella lanciano l'omonimo album d'esordio: una miscela esplosiva di diversi stili creata con genuina ispirazione e proposta con un sound sporco e graffiante

Neko at Stella

s/t

(Cd, Dischi Soviet Studio)

blues rock, gaage rock, indietronica

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Affrontando il tema del panorama musicale italiano, le cui classifiche sono spesso dominate da cantantini di plastica gettati da certi talent show nelle fauci di piccole teen-agers affamate di bei visini più che di musica di qualità, si tira un sospiro di sollievo quando si presta un orecchio alla realtà celata nel sottobosco.

L’esordio omonimo dei padovani Neko at Stella potrebbe rappresentare un esempio: intendiamoci, non è un capolavoro, ma è senza dubbio un disco dalle interessanti e sperimentali sonorità che riesce ad avere caratteristiche abbastanza originali, nonostante si captino molteplici e diverse influenze; inoltre l’evidente attitudine della band a suonare una musica molto istintiva e a tratti improvvisata è, a mio avviso, già un punto a favore.

L’apertura (nonché primo singolo) Loud as hell rende già un’idea di cosa arriverà più avanti: il brano è un richiamo al garage rock degli anni ’90 con una slide guirar distorta ed un sound essenziale ma massiccio.

L’utilizzo del ritornello a cappella è quantomeno originale. Le atmosfere vocali suggeriscono influenze in bilico tra i Velvet Undergound, i Depeche Mode ed il british punk: ne sono esempio brani come il gradevole punk di Now I know, la romantica ma cacofonica Joy (buona ma troppo lunga) o la coinvolgente Drop the bomb, exterminate them all.

A rendere il sound particolarmente riconoscibile è un vasto utilizzo del feedback, giostrato piuttosto bene ed efficace a conferire atmosfere diverse senza l’uso di sintetizzatori. Le chitarre sono sporche, e le parti di batteria dinamiche ed importanti. Solo due strumenti, ma sufficienti a sbattere nelle orecchie di chi ascolta un suono solido e prepotente, come si può sentire nel brano Disillusion, uno psicopatico pezzaccio a ritmo di blues che all’inizio sembra ispirato da alcuni brani sperimentali degli anni ’70.

I suoni si direbbero imprecisi e troppo sporchi, ma la sensazione è ovattata per il fatto che, comunque, nel complesso di questa registrazione palesemente analogica, spunta una genuina natura istintiva, come si ascolta nella prima vera sorpresa dell’album: Like flowers, pezzo in cui, dopo tanto martellamento, esce fuori a sorpresa una chitarra acustica accompagnata da un tappeto di feedback, un azzardo sonoro abbastanza riuscito: un testo d’amore poetico e un po’ ruffiano si insinua in un’ atmosfera musicale che passa da una sorta di country in chiave maggiore a momenti più intimi e riflessivi.

Mentre dello strumentale Intermission si poteva fare tranquillamente a meno, The flow si rivela il pezzo più interessante dell’album: una slide guitar squisitamente Hard Blues accompagna una sorta di cantilena che conferisce un’orecchiabile aura di mistero e di rituale pagano.

Psycho blues è un buon Rock duro da pogo che non stonerebbe in un film underground dai temi forti, mentre Small place si muove su di un ritmo lento e trascinante anche se a tratti un po’ noiosa (troppo lunga). La band saluta l’ascoltatore con Come back blues, un brano che sfoggia una forte influenza dal Delta Blues in apertura e chiusura ed un violento Speed Rock nel folle intermezzo: un mix interessante, forse un po’ azzardato.

Neko at Stella è un disco che non cambierà la storia del rock, ma che mette in luce una band che ha imboccato una buona strada e che, evolvendosi, potrebbe offrire dei lavori notevoli, oltre al sollievo, come accennato in precedenza, di avere in Italia una musica diversa e coraggiosa.

 

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