The Foreign Resort: New Frontiers

I danesi The Foreign Resort ricolorarno di nero-wave il nuovo disco, New Frontiers, una scaletta arrampicata negli anni Ottanta che sale e sale in un’epoca di fasto perenne

The Foreign Resort

New Frontiers

(Autoproduzione)

wave

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THE FOREIGN RESORTI danesi The Foreign Resort non hanno bisogno di presentarsi e di chiarire la loro fosca indulgenza nel vivere – musicalmente – nei meandri color torba degli anni Ottanta, a capofitto in quei fradici e bolsi momenti della electro-wave tendente al dark, quella tessitura sonica che sa di catrame, nebbia, doppie visioni e il broncio perennemente all’ingiù. E qui nei frangenti del loro terzo lavoro discografico New Frontiers tutto ciò non solo viene ribadito, ma addirittura doppiamente ispirato da tricologie di marca Cure, sottigliezze dettagliate e oscure di Joy Division con Cocteau Twins incorporati e tutta l’efficacia di una era stilistica che ancora evoca fantasmi, magnificenze e stump stump di cuore.

Quello che colpisce ascoltando questa sfilza di brani è la quasi perfezione della band a farne – di quel fatalismo attraente – una nuova occasione di riascolto, a riportarne quelle ballate noir in una moderna scelta sonora che, se ascoltata a metà di un alba qualsiasi, fa tremare le vene dei polsi, se non altro per l’emozione che fa salire o (ri)salire in superficie; una voce tristagnola, strumenti echeggiati, atmosfere e ghiaccioli che pervadono l’ascolto nella loro soffusa essenzialità, non siamo davanti ad un semplice disco che è rimasto postato nei ranghi Ottantiani, ma siamo dentro una convulsione malata e stranamente aggiornata che rivitalizza vecchi ascolti e altrettanti di quelli nuovi tanto da risucchiarli – in poco tempo – nell’occhio del ciclone TFR e di quello di un tempo immarcescente.

Nulla che vada a sconvolgere la scena underground internazionale chiariamoci, ma un ventaglio di brani perlacei di gamma opaca che piacciono, la shuffle dance di Breaking apart, Robert Smith che ballonzola in Alone, l’epica tempestosa della titletrack o Dave Gahan che si fa ologramma color pece dentro Dark white; sintetizzatori e metri di territori brumosi fanno il resto, intontiscono, circuiscono e si ricomincia daccapo.

 

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