Crystal Castles

L'onda anomala della nu wave si attenua e mostra i suoi limiti; tra revisionismo storico perpetuo e calma fin troppo apparente i Crystal Castels sbagliano bersaglio accontentando le masse pop(corn)

Crystal Castles

Crystal Castles

(Cd, Polydor)

nu-wave, electro-pop

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recensione-crystal-castlesAvevano sorpreso tutti due anni fa, infuocando in modo ammaliante e terrificante un genere fin troppo rinnovato e già sentito.

Su album riempiendo le nostre orecchie di vecchi Atari e urla incresciose, e dal vivo con la sublime Alice Grass, indemoniata e di nero cerchiati i suoi occhi, la Divina inquieta e sferraglia graffi per tutti.

I Crystal Castles, canadesi di Toronto, si sono formati nel 2003, prima imponendosi all’attenzione con qualche buon remix  – il buon vecchio Ethan Kath al’epoca solo – e poi, a partire dal 2005 con l’ingresso della Divina, con qualche devastante singolo, vedi Alice Practice e Crimewave.

Poi il botto, un genere che funziona sempre con qualche ritocco trendy (suoni campionati e voce distorta il giusto per accontentare tutti e non escludere nessuno), live travolgenti, e via.

Questo nuovo lavoro, l’omonimo Crystal Castles, sarà il disco della consacrazione a livello mediatico, di vendite, di popolarità, sicuramente non quello della maturità artistica.

Fainting Spells sembrava un buon inizio, discesa agli inferi che ricorda gli Atari Teenage Riot meno catastrofici, un nuovo concetto di nu-rave. Ma già da Celestica si colgono le reali intenzioni del nuovo album, mai pezzo così commerciale e così spiccatamente danzereccio, una via di mezzo tra Knife e Royksopp, popettaro e rimbombante che alla lunga piacerà.

Baptism ci fa rimpiangere qualsiasi cosa nella sua ovvietà, Year of Silence filtra la voce di Jonsi dei Sigur Ros rendendola stanca e ridondante più di quel che è. E poi il colpo di coda, il sogno e l’illuminazione assieme: Violent Dreams, piccola gemma incastonata nella melodia, avvince nella sua semplicità, dream pop filtrato e meccanizzato. Vietnam dà qualche speranza per la sufficienza, ma la conclusiva I Am Made of Chalk ridimensiona tutto nella sua confusione su che strada intraprendere.

Dispersivo e noioso, ma tiene aperto qualche piccolo spiraglio per il futuro.

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Federico Pevere
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