Bon Jovi: Burning Bridges

Tornano i Bon Jovi con Burning Bridges, il nuovo album che precede il tour autunnale. È il primo LP senza lo storico chitarrista Richie Sambora

Bon Jovi

Burning Bridges

(Mercury Records)

pop, rock

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recensione-bon-jovi-burning-bridgesI Ponti in Fiamme sono i tagli netti col passato, certo, ma sono anche quelli che illuminano la nuova via. O quantomeno il suo principio.

È questo il senso del nuovo dei Bon Jovi, Burning Bridges, che è atterra nei negozi di tutto il mondo il 28 agosto e sarà “un regalo per i fan” e la start-up del breve tour che toccherà terre poco battute come Israele, Cina, Indonesia, Malesia, Taiwan ed Emirati Arabi in attesa di un vero nuovo album il prossimo anno cui dovrebbe seguire un vero, nuovo tour mondiale.

Già, perché Burning Bridges non è altro che il segno dei nostri tempi.

I Bon Jovi hanno venduto 150 milioni di dischi in oltre 30 anni di carriera e, buon per Jon e soci ma ahimè per noi e per l’arte, questo record è destinato a rimanere negli annali per molto tempo a venire se non ad aeternum.

Le strategie di marketing si sono adeguate com’era ovvio: si fa un album, lo si regala erga omnes, se ne stampa qualche copia tanto per far contento lo zoccolo duro dei fan e qualche supermercato, si va in tour calibrando il prezzo di biglietti e vip-experience varie sul PIL del Paese ospite.

Ma, per riempire gli stadi, bisogna stare sempre sul pezzo, altrimenti la gente va a vedere il Cirque du Soleil. Ecco perché serve il tuo nome sui giornali e la tua musica alle radio e sulle autostrade virali del web. Ecco perché, per un tour interlocutorio, c’è bisogno di un album interlocutorio che riaccenda il circo mediatico qualche settimana prima di piantare paletti e riflettori nel massimo rispetto del Tanàkh.

Conosco molto bene la storia di questa band, dei suoi membri e di buona parte della gente che gli gravita intorno. Non so quanti concerti ho visto, certo troppi per essere contati con esattezza. Colleziono i loro strumenti, gli abiti di scena e ogni cosa che li riguardi. Ho perfino scritto un libro su di loro. Eppure, quando qualche settimana fa Jon si presentava alle serate mondane newyorchesi ostentando a fotografi e giornalisti la sua nuova chioma grigia e sostituiva al classico saluto un “Sono appena arrivato dallo studio di registrazione…” , sarei stato pronto a scommettere che avrebbe sfornato un altro greatest hits con dentro i soliti due o tre inediti per le radio. Quanti israeliani o cinesi vuoi che comprino un album di inediti dei Bon Jovi?

E invece sono rimasto spiazzato, proprio come lo fui all’uscita di una raccolta stramba come This Left Feels Right o da altre scelte significanti che qui non spiegherò.

È un regalo per i fan, il vero album nuovo uscirà il prossimo anno e sarà fantastico”.

Non erano solo PR, incredibile.

Quando si slega dalle logiche mainstream, o quantomeno finge di farlo, JBJ torna ad essere quel Dio pagano che venero da decenni.

Ma torniamo al titolo. I Burning Bridges di Jon sono definitivi, come la sua attitudine “familiare” ha ampiamente dimostrato nel tempo. I brani, anche stavolta, parlano di niente ma lo fanno benissimo. Il linguaggio delle liriche è trasversale e universale quanto un film con Meg Ryan, semplice ma sociologico al pari di tutto il post Crush (l’album del 2000 con It’s My Life).

E, ascoltando la title-track, si ha la sensazione che, laddove una canzone scritta da Jon voglia finalmente provare a dire qualcosa, lo faccia in maniera tutto sommato scomposta.

I background chorus della band –o di quel che ne rimane- salutano in tutte le lingue del mondo (ciao, adios, sayonara, auf wiedersehen, farewell, adieu), e questa ironia un po’ americanotta alla David Letterman potrebbe anche starci, soprattutto perché la musica scanzonata è volutamente dissacrante ed estremamente divertente. “Suonatela per i vostri amici allinferno”, invece, serve perché hell fa rima con guten abend ma sconquassa una geometria lessicale che ha la tendenza a ingannare quanto un punto luce di Richard Meier.

Si spara sulla Mercury Records -o almeno questa è la versione ufficiale- perché Burning Bridges sarà l’ultimo lavoro con la potente label e i rapporti non si sono interrotti certo nel migliore dei modi.

Già sul finire degli anni Novanta Jon scrisse Talk to Jesus, un brano in cui scimmiottava malamente le intenzioni di How Do You Sleep (dall’album Imagine di John Lennon). Ma quello era un outtake e il grosso del pubblico neanche lo conosce.

Così ora, mentre ascolto Il Senatore cantare “I’ve seen a million faces and I’ve lived a couple of lies”, non c’è neanche bisogno che la frase termini per far risuonare nelle mie casse Focal l’eco di “The only thing you done was yesterday”.

Anche “The sound you make is muzak to my ears” di John non suona forse molto simile a “Ora forse potrete (o potrai?) imparare a cantare e perfino a strimpellare” di Jon?

Solo che quest’ultima è preceduta da “Dopo 30 anni di lealtà vi (o ti?) faranno scavare la fossa” ed è seguita da “Be’ vi darò metà della pubblicazione, siete voi (o sei tu?) la ragione per cui ho scritto questa canzone”.

E ancora “call this chapter shooting stars” (chiama questo capitolo “stella cadente”), è una citazione sarcastica del classico dei Bad Company –nel quale peraltro un giovanissimo Richie suonava la chitarra acustica a 12 corde- o semplicemente un’altra frase figlia delle influenze?

Insomma, è il gioco delle tre carte. E, se abbiamo preso per buono che Bounce parla dell’11 settembre (and that’s a lot for love…), diciamo che Jon è un esimio esponente di una fantomatica corrente lirica new-ermetica. Che tradotto vuol significare (an)che, se in Burning Bridges si parla del transfuga Sambora, non lo sapremo mai. E chiudiamola qui con il gossip, tanto l’importante era farvi leggere la prima parte dell’articolo perché, chi è arrivato fin qui, non mollerà certo ora che veniamo al cui prodest.

Dio e mentore, staranno pensando i più sagaci.

Richie Sambora è scappato a fare la musica che vuole fare (hey bro!). Il prodotto finale, però, non ne risente per niente. Sarà perché di chitarra negli ultimi album della band del New Joisey (we-don’t-say-New-Jurzee!) ce n’era davvero poca o forse perché il trade-mark è ormai pressoché sintetico sebbene sempre gradevole. E l’attacco del solo di We don’t run, pomposo anthem da stadio, ne è la prova provata a plettro di John Shanks (sì, proprio lui).

I pezzi sono tutti orecchiabili, dal riff scolastico di I’m Your man all’arpeggio di piano equipollente di Blind Love, fino a quel “ooooh ooooh” pieno di eco che rimarrà come un hook nei cuori dei fan e come una pietra tombale nella testa dei critici musicali che immediatamente salteranno Teardrop To The Sea per la traccia che segue.

Il primo singolo, Saturday Night Gave Me Sunday Morning, è esattamente quel che si dice catchy.

Si parte da un’idea, la si lavora, la si smussa fino a farla propria: Des and Maria (che somiglia a Gina Lollobrigida) diventano Johnny and Gina (hey, Johnny sono io, non va bene!) che diventano Tommy and Gina (ok, ci siamo).

Così, se We All Fall Down, Fingerprints e Life Is Beautiful hanno un sound tipicamente bonjoviano, Who Would You Die For, almeno sulle prime, lascia un po’ sul chi va la quantomeno per la parte ritmica molto distante dalla vena rock che, pure, ancora pulsa passionale tra Colts Neck e Red Bank.

L’edizione giapponese ha un brano in più, Take Back The Night.

Nel complesso queste canzoni di scarto sono ben al di sopra dell’ultimo What About Now, ma questa non è una notizia. Il prossimo album sarà favoloso. Promessa raccolta. Certo non dipenderà dall’addio alla casa discografica e dalla ritrovata libertà artistica, considerato che il Gatto e la Volpe si sono appena fatti sputare in faccia per quattro vili danari.

Che Jon stia pensando di liberarsi di tutti i songwriter e produttori che lo attorniano da vent’anni?

Il sogno della mia vita è prendermi un mese di ferie, volare fino in New Jersey (eh!), raccogliere i pensieri dei guys per la loro autobiografia e, prima di tornarmene a casa per iniziare a scriverla, aiutarli a portare fuori dal loro seminterrato la monnezza.

Lights on…

Jon è in piedi sullo scranno, senza meches sembra Richard Gere, è avvolto dal laticlavio e arringa il suo nuovo popolo mediorientale che lo osanna cantando a memoria: oooh oooh, Livin’ on a Prayer.

Rock on. And Gahbless!

Track List:

  1. A teardrop to the sea
  2. We don’t run
  3. Saturday night gave me Sunday morning
  4. We all fall down
  5. Blind love
  6. Who would you die for
  7. Fingerprints
  8. Life is beautiful
  9. I’m your man
  10. Burning bridges
  11. Take back the night

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