Placebo: Battle For The Sun

Un altro buco nell’acqua per la band di Brian Molko: brani stanchi e annoiati, con qualche fugace buona intuizione non adeguatamente sviluppata. Rivedremo mai i Placebo nella forma smagliante degli esordi?

Placebo

Battle For The Sun

(Cd, Pias)

rock, pop

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placebo_battle_for_the_sunChe ventata d’aria fresca furono i Placebo al loro esordio. Quando comparve sulla scena musicale, nel 1996, il gruppo guidato da Brian Molko attrasse su di sé molte attenzioni, per via dell’innovativo mix di correnti e stili diversi: suoni spigolosi e caustici ereditati dai Sonic Youth e dai Pixies, atmosfere malate e ossessive, come quelle dei Cure e degli Smiths, immagine ambigua che attinge al glam rock di David Bowie. Sembrava impossibile che le nuove generazioni avessero a disposizione un impasto così perfettamente bilanciato tra suggestioni e correnti musicali tanto diverse. L’androgino carisma del leader, poi, andava a completare un quadro di partenza quasi perfetto.

È difficile adesso scorgere in un imbolsito Brian Molko, in un anonimo Stefan Olsdal e in un tamarrissimo ventiduenne, Steve Forrest (che ha sostituito il batterista storico, Steve Hewitt) quel folgorante gruppo che avevamo imparato ad apprezzare. Non si capisce se a mancare siano le idee o il coraggio, se i Placebo non hanno veramente più nulla da dire oppure se si stanno accontentando di vivere di rendita, ancora tronfi delle innumerevoli lodi che hanno ricevuto per il loro indiscusso capolavoro, Without You I’m Nothing.  Fatto sta che, dal terzo album in poi, i Placebo ci hanno abituati a brani ripetitivi e senza spina dorsale, fino a raggiungere la quasi totale catastrofe con Sleeping With Ghosts. Con questo nuovo lavoro, Battle For The Sun, il terzetto inglese sembra rielaborare i soliti cliché della loro musica, cercando inoltre di conferire una patina modaiola a tutti i brani in modo da accattivarsi il pubblico dei teenagers.

Ashtray Heart è fiacca e monotona, For What It’s Worth non ha nerbo, è quasi irritante nei suoi piatti suoni plastificati. In Julien gli arrangiamenti  vengono lucidati e smaltati sull’impronta delle band emo -pop adolescenziali, e forse sono proprio i ragazzini, che non hanno conosciuto i Placebo nei loro anni d’oro, gli unici che possono apprezzare questo disco. In alcuni punti la vera anima del gruppo sembra riaffiorare, come in Bright Lights, percorsa da una vena languida nonostante le chitarre solari e il ritmo allegro, oppure in Speak in Tongues,  disperata e dilaniata come alcune delle ballad più potenti scritte da Molko nei primi anni di attività. Ma sono solo vaghi sentori, troppo deboli anche solo per far nascere qualche speranza.

È dura, cercare di portare avanti un gruppo facendo leva sui fasti del passato. È dura, sforzarsi di mantenere in vita l’immagine ingiallita dal tempo di un gruppo trasgressivo e brillante. I Placebo ora si trovano a un bivio: incanalare la loro energia oscura in brani maturi, che mantengano intatta la tempra e lo spirito degli esordi, oppure tentare di reinventarsi come l’ennesimo gruppo dal rock facile e dal look vincente, senza troppe complicazioni. La scelta sta solo a loro.

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Sofia Marelli
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