Intervista a Hibou Moyen

Dopo anni lontano dalla musica rock alternativa, Giacomo Radi, alias Hibou Moyen, torna sulla scena musicale italiana in una veste più acustica, più folk e più cantautorale. Ecco l'intervista esclusiva

Dopo anni lontano dalla musica rock alternativa, Giacomo Radi, alias Hibou Moyen, torna sulla scena musicale italiana in una veste più acustica, più folk e più cantautorale. In esclusiva per RockShock.it racconta il suo vissuto e la nascita del suo ultimo album, Fin dove non si tocca…

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RockShock. Partiamo dal tuo nome: perché hai scelto di chiamarti come un animale (in questo caso il gufo) e soprattutto in lingua francese?

Hibou Moyen.  Hibou Moyen è nato come salvagente. Avevo smesso di suonare da tre anni e mi capitò, per una serie di eventi, di dover aprire la data di Firenze del tour di addio di Moltheni. Serviva un nome d’arte e io non ce l’avevo. Non avendo mai amato i nomi propri per designare un artista decidemmo al telefono, proprio con Umberto, il nome sfogliando una rivista. Essendo un amante della natura e un naturalista, ornitologo ed erpetologo, il nome mi calzava a pennello. Suona bene e si ricorda male, una sfida in più.

RS. Quanto conta la natura, in senso biologico ma anche intesa come realtà fenomenica, nelle tue canzoni?

HM. Essendo io un animale, biologicamente parlando, mi sento a mio agio nella natura perché mi conforta, mi rasserena e mi ammonisce quando deve, facendomi riflettere e cambiare se occorre. Agli animali, alle piante, agli odori del bosco e ai suoni della campagna sono associati gran parte dei miei ricordi e le mie canzoni nascono nella mia casa in collina, mentre cammino nei boschi o quando mi godo il mare invernale. Non posso pensare di scrivere senza citare tutto questo.

RS. Da dove nasce la tua musica e qual è il tuo percorso musicale?

HM. Credo sia una storia banale. Da ragazzino iniziai a sentire l’esigenza di scrivere e così feci riempiendo pagine di quaderni. Il passo successivo fu quello di accompagnare queste parole con della musica, con risultati candidamente acerbi. Negli anni ho suonato in vari gruppi rock per poi trovarmi soffocato da varie dinamiche di gruppo, fino a un allontanamento, per un lungo periodo, dalla musica. E’ molto ingenuo pensare di potersi lasciare alle spalle un grande amore solo perché tormentato e, infatti, sono qua a rispondere alle tue domande.

RS. Un cantautorato molto elegante, con venature folk… da quali artisti trai ispirazione?

Credo che alcune venature derivino da tutti coloro che rappresentano il mio background, background consapevole, di ascolti fino ad oggi: dal folk rock di Elliott Smith alle stravaganze dei Pixies, dalla classe di Josè Gonzalez all’intelligenza musicale di Lucio Dalla, da Lou Reed a Ciampi. Indubbiamente la musica indipendente degli anni 90, il cantautorato statunitense e quello italiano mi hanno forgiato in maniera definitiva.

RS. Nel 2014 esce Inverni, come è nato il tuo primo disco?

HM. Dopo essermi trovato senza un gruppo e con più libertà espressiva ho iniziato a scrivere nuove canzoni. Siamo intorno agli inizi del 2013 quando ho incontrato Luca Spaggiari e il collettivo Private Stanze. Ci siamo conosciuti a una festa dove suonai alcuni brani per una mia amica. Da lì la sua proposta di registrare un disco e di co-produrre quello che sarebbe diventato Inverni, e dopo pochi mesi ci siamo trovati a registrarlo assieme e scrivere persino due testi in collaborazione. Il disco è uscito senza una distribuzione e purtroppo non ha avuto molta risonanza. Sono molto legato a Inverni e credo che abbia dei brani molto intensi.

RS. Poi, a due anni di distanza, arriva Fin dove non si tocca. Che lavoro c’è dietro questo album e cosa ci vuole raccontare?

HM. I brani di Fin dove non si tocca sono nati tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016. Non c’è stata una vera e propria progettualità se non nell’ultima fase della registrazione e mixaggio, quando il lavoro è diventato minuzioso e programmato. Il rapporto che ho con la scrittura e la composizione è molto viscerale e non avendo doti da organizzatore non avrei altre possibilità se non affidarmi alla pancia.
Per questo disco volevo una mano esterna e quindi ho proposto la produzione a Umberto Maria Giardini, artista che stimo da anni e che conoscevo già personalmente. Umberto ha apprezzato il lavoro ed ha accettato di accompagnarmi in questo nuovo episodio del mio cammino artistico. Grazie anche al contributo economico di Toscana110band ho potuto permettermi di realizzare un prodotto finale più curato nei dettagli tramite mezzi più efficienti.
Il disco racconta i sentimenti, o meglio, di alcune sfumature che essi assumono. La carnalità e la passione che si nutrono nella profondità del mare, i ricordi e l’ingenuità che questi racchiudono, la metamorfosi come adattamento all’amore. Non mi trovo molto bene nella veste di cicerone delle mie canzoni, quindi preferisco non aggiungere altro: in primis perché nelle mie canzoni esprimo qualcosa che difficilmente riesco a tirare fuori al di là dei testi, qualcosa che, per l’appunto, sta lì, dove non si tocca; in secondo luogo perché i miei testi danno ampio respiro ad interpretazioni personali, e una mia “voce guida” andrebbe a smorzare quel meccanismo ermeneutico dei singoli ascoltatori e di conseguenza il loro rapporto di intimità col testo.

RS. Dieci tracce, tutte molto intime ma quale di queste senti più tua?

HM. Se per intimo intendi che traggono ispirazione da esperienze personali, no… non sono tutte molto intime. Sono intime nel senso sopra citato, nel senso di un qualcosa che indubbiamente viene dalla parte più profonda di me.
In questo senso, Unghie è la canzone che trovo più attaccata alla mia pelle.

RS. C’è una canzone di un altro artista che magari avresti voluto scrivere tu?

HM. Ce ne sono molte ma non riesco mai a stilare classifiche di preferenza che rimangano inalterate nello scorrere degli anni, che si ossidino in una bolla temporale.
‘Com’è profondo il mare’ è la prima cosa che mi viene in mente. Un brano dove Lucio Dalla ha concentrato tutta la sua potenza espressiva. Altre che mi vengono in mente, ‘Say yes’ di Elliott Smith, ‘Cycling trivialities’ di Josè Gonzalez, ‘E poi vienimi a dire che questo amore non è grande come tutto il cielo sopra di noi’ di Moltheni, ‘While My Guitar Gently Weeps’ di George Harrison, ‘Afraid of nothing’ di Sharon Van Etten o ‘A place called home’ di PJ Harvey.

RS. Cosa ne pensi della musica attuale italiana?

HM. Per quanto riguarda i cosiddetti big della musica italiana, a volte mi danno qualcosa altre volte no. L’apprezzamento nei confronti dei loro pezzi dipende da quanto ogni singolo brano riesca a comunicarmi qualcosa o meno, e da quanto io in primis riesca a percepire un carattere proprio, un qualcosa che vada al di là della solita trovata di marketing, come la scelta di determinati suoni che, a seconda dei vari filoni, fanno da comun denominatore in ogni pezzo. In questi ultimi casi, posso al massimo apprezzare l’orecchiabilità della melodia, ma nulla di più. La tendenza all’omologazione, alla produzioni di pezzi con caratteristiche molto simili tra loro, elementi che di sicuro contribuiscono al successo immediato, porta con sé la minimizzazione dell’importanza delle diverse componenti di un brano visto come pezzo artistico: l’elemento più evidente di questa tendenza è di sicuro la costruzione di un testo che personalmente mi appare il più delle volte come impersonale, vuoto, e freddo. Non sto qui a fare la differenza tra mainstrem e indie, credo che la personalità di un pezzo possa essere presente anche nel cosiddetto mainstream, ma non faccio questa distinzione soprattutto perché non so quanto senso abbia farlo adesso in Italia visto e considerato quanto il mainstream venga oggi considerato indie solo perché “indie ” è diventata una parola fica. In generale non mi interessa tutto ciò che porta ad una sterilizzazione della personalità e ad una banalizzazione del messaggio.
La musica indipendente, come fucina d’innovazione sonora, attitudine, sperimentazione e indipendenza dalle mode, esiste ed è sicuramente fervida in Italia, ma viene sempre più soffocata da meccanismi biechi. E’ stato più semplice catalogare un tipo di musica pop come indie, e trasformare la musica indipendente in un genere musicale con un format da seguire, sopraffatto anche questo da un’azione banalizzante del mercato.

RS. Quando inizierà il tour di promozione per questo album? Hai anche altri progetti per il futuro?

HM. Il tour promozionale è già iniziato da Novembre e mi ha portato in varie località e si fermerà il 5 Gennaio con una data in Maremma per poi riprendere dai primi di Marzo. Nel frattempo continuo la promozione con interventi in radio e tramite il web. Per un artista non supportato da una grande produzione è molto difficile suonare fuori, e per un cantautore senza un organico live è complesso anche trovare membri disposti ad “immolarsi” per un progetto altrui. Al momento suono dal vivo in formazione di due/tre elementi. Progetti per il futuro? Trovare una band stabile per il progetto Hibou moyen e pubblicare il terzo disco. Sto già raccogliendo idee per quello che sarà il mio terzo album.

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P.S.: le foto sono di Benedetta Falugi.

 

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