Devi: Get free

Debut album per questo trio americano dallo stile cantautoriale, pronto a spezzarne la monotonia con del sano rock’n’roll.

Devi

Get free

(Cd, True Nature Records)

powerpop


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devigetfreeIn una società prettamente maschilista come la nostra, quello musicale è forse l’ultimo campo in cui non si fa discriminazione tra i sessi. Sfondare è complicato per tutti, ma una canzone è bella indipendentemente da chi la canta (basta che sia intonato!). Per questo, non stupisce che il gruppo che vado ad illustrarvi sia capitanato da una donna, che oltre ad esserne la cantante, è anche chitarrista. E di classe ne ha, tanto da non temere il confronto con un uomo.

I Devi sono un trio del New Jersey al loro debutto. Get free è un album che parla di amore, di Dio, di tutte quelle cose che inseguiamo nella vita per ricercare la felicità e rifuggire il dolore, che però ci aiuta a crescere. Osservazioni profonde e filosofiche: non a caso, il nome del gruppo è una parola che in sanscrito significa dea e rispecchia il mood yoga-oriented della cantante-chitarrista Debra.

Apparentemente, la musica di questa band è ispirata da uno stile cantautoriale alla Sheryl Crow, cantante alla quale è facile accomunare Debra in brani come Welcome to the Boneyard; ma limitarsi a questo sarebbe riduttivo. L’anima rock di questa cantante-chitarrista si impone quasi con ferocia in pezzi come Another day o C21H23NO3. E in canzoni del genere, più che a Sheryl Crow, la paragonerei a Courtney Love. Due che non hanno molto in comune, neanche in fatto di uomini.

Ma se il rock, con le sue chitarre potenti, sembra la ragion d’essere della maggior parte dei pezzi di quest’album, compresi quelli in cui apparentemente non c’entra niente (come in Love that lasts, che inizia con un clarinetto d’atmosfera per subire uno stravolgimento verso la metà), è abbastanza umile da lasciare il posto anche ad altri ritmi. Runaway ci riporta all’America anni ‘50, alle gonne a ruota e alle code di cavallo. Un intro di sarod in Howl at the moon ci rimanda a ritmi indiani (anche se si tratta proprio solo di un rimando), mentre un pizzico di tastiere anni ‘70 in “When it comes down” ci solleticano ricordi psichedelici tipici di quegli anni. Il tutto condito da una cover di The needle and the damage done di Neil Young, omaggio a un grande della musica.

In conclusione, album piacevole per essere un’opera prima, ben suonato e abbastanza variegato. Caldamente consigliato agli amanti delle cantautrici American-style, ma che hanno ancora voglia di muovere la testa su e giù. Un buon mix tra rock ed abilità compositiva, che però manca di qualcosa per convincere davvero ed entusiasmare come dovrebbe.

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Simona Fusetta
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