Artica
Polychrome
gothic rock, new wave
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Che dire degli Artica? Che dire di questa storica band romana formata nel 1989 e capace in 35 anni di carriera di scrivere un pezzo di storia nazionale in ambito new wave/gothic rock?
Potrei dire che hanno pubblicato cinque album in studio, sei con quello di cui mi appresto a scrivere o che sono stati inclusi in alcune delle compilation più ambite del globo come L’Appel de la Muse, vol. IV (Preghiera – Ecclesia) del 1994, Death by Dawn 2 – The Avenger (Sarajevo) del 1995 su Apollyon Records e Gothic-Rock II (Sarajevo) su Jungle Records dove appaiono tra nomi stratosferici come Fields of the Nephilim, Christian Death (quelli di Rozz), Alien Sex Fiend, Bauhaus e Red Lorry Yellow Lorry.
O ancora che Mick Mercer li volle inserire nel terzo Gothic – Rock Book insieme al gotha del gothic-rock (perdonate il gioco di parole) come Bari-Bari (Mephisto Walz), Mike Van Portfleet (Lycia/Bleak), GodKrist (Madre Del Vizio), Patrick Hendrix (The Breath Of Life), Dave (Vendemmian).
Ma in realtà credo non ci sia davvero nulla da aggiungere perché i loro trascorsi parlano da soli, c’è solo una cosa che voglio sottolineare, gli Artica non sono il loro passato, gli Artica sono il presente, un presente fulgido e del tutto a fuoco come ampiamente ci dimostra Polychrome, il loro ultimo full-lenght da poco uscito su formato digitale.
Dopo un lungo processo creativo, Panacea risale infatti al 2017, Alberto Casti (voce e chitarra), Gabriele Serafini (chitarra), Stefano Marcon (batteria e sampler) e Federico Marigliano (basso) tornano a farsi sentire con Polychrome, un disco che appare come un viaggio sonoro particolarmente emozionale dotato di molteplici sfumature attraverso le quali si percepisce l’esistenza umana in tutte le sue sfaccettature.
Un album che celebra la vita nella sua dirompente complessità, quella bellezza “che reclama d’essere rivelata” (cit. The Calling) dove le texture sonore si intrecciano a liriche intense creando atmosfere che spaziano dall’intimismo più rarefatto del dark psichedelico alla più autentica energia gothic rock senza mai abbandonare l’esplorazione di nuovi territori e direzioni come da sempre ci hanno abituati.
Il misticismo evocativo della splendida The Calling, primo singolo estratto accompagnato da un video molto suggestivo dove appaiono macerie, lacerazioni e miserie umane in netto contrasto con immagini di rinascita e resurrezione (abbiamo tutti un angelo dalle ali nere, basta solo saperlo riconoscere) si rinnova in I Walked Away, traccia onirica ed avvolgente resa perfetta da un compendio magistrale di soluzioni armoniche, sezione ritmica da applauso e un’incredibile prova vocale di Alberto in vero stato di grazia.
Dall’emotività remissiva di The Bomb, ballad piena di pathos tra Death in June e The Mission, all’intimità sensuale di U&I, tonda e melodica con finale prorompente a sorpresa fino alla liturgia di Let Me In e all’abbrutimento sociale di Dancing (Through the Cemetery Gates), una delle mie preferite appoggiata com’è su quel magnifico scheletro di batteria tribale e basso portante dove galleggiano splendide linee vocali armonizzate con la chitarra estatica.
Infine la resilienza professata dalla corposa My Grip e l’incitazione al riscatto nella più elettronica Rise&Fall che regala sensazioni indicibili grazie ai repentini cambi di mood e al finale maestoso.
Polychrome è un disco sentito, genuino, schietto, intimo e molto profondo, suonato benissimo e arrangiato meglio, senza dubbio il più maturo del quartetto romano, almeno fin qui.
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