Andreotti: la recensione di 1972

Di Andreotti non si sa molto. Solo che è “l’ennesimo cantautore indie-pop del nostro Bel Paese”. 1972 è il suo debut album smaccatamente vintage.

Andreotti

1972

electro-pop, indie

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andreotti-recensione-1972Andreotti è per sua stessa ammissione “l’ennesimo cantautore indie-pop del nostro Bel Paese”. Di lui però non è dato di sapere molto di più. Classe 1993, ha deciso di nascondersi dietro l’anonimato per mettere la musica al centro del progetto. Formula che di recente ha dato ottimi risultati, ma che a lungo andare rischia di suonare più come una trovata commerciale.

Al di là di cliché e luoghi comuni, a maggio esce il suo album d’esordio, 1972. Titolo dalla duplice valenza. Da una parte, rappresenta l’anno che rievoca la candidatura vincente del politico italiano; dall’altro, ne lancia una nuova, votata all’escalation della scena indipendente italiana. Il rilancio di questo genere sembra per molti passare per gli anni ’80. E Andreotti non fa eccezione.

La sua è un’elettronica smaccatamente vintage, fatta di batteria analogica e string machine, sostenuta da una vibrante linea di basso.

Ne nascono liriche caustiche e nichilistiche, fatte di metafore e accostamenti al limite del surreale. Testi diretti, nell’espressione e nel linguaggio, declamati più che cantati, perché la voce deve enfatizzare, portando la parola all’estremo.

Le sue elucubrazioni, in bilico tra passato e presente, danno forma a un sogno lucido, frutto di un cantautorato post moderno che non rinnega le proprie origini. Un punto di rottura e al contempo, un punto di partenza.

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