Intervista agli Underfloor

Gli Underfloor si raccontano a RockShock, con un'esauriente intervista che vi farà apprezzare ancor di più il loro ultimo progetto, Quattro. Tra prog britannico, jam session e voci suonate, ecco una band che si muove in modo lucido e attento in un mondo sempre più distratto

Dopo la recensione dell’album Quattro, incontro gli Underfloor per RockShock e faccio due chiacchiere con Guido Melis (basso e voce) e Lorenzo Desiati (batteria).

Subito una domanda per conoscere meglio questo gruppo di Firenze. (Lo so, la domanda è brutale, ma andava fatta).

RockShock. Ammetto candidamente che non vi conosco, escluso l’album per cui ho scritto la recensione. Potete in breve riassumere la vostra storia?

GUIDO: Abbiamo iniziato a suonare assieme nell’estate del 2003: all’epoca eravamo un power trio, col sottoscritto al basso, Lorenzo Desiati alla batteria e Matteo Urro alla voce e alle chitarre. Fin dall’inizio ho condiviso con Matteo la scrittura dei brani, in particolare la parte musicale. Abbiamo pubblicato il nostro primo CD, Underfloor, nel 2004: pur trattandosi di un’auto produzione ebbe un’accoglienza piuttosto buona, e molte recensioni decisamente positive. Sempre facendo tutto da soli realizzammo un videoclip, Nevica (…)

Abbiamo sempre creduto nella nostra autonomia musicale: per questo motivo nel 2008 abbiamo creato la Suburban Sky Records, pubblicando come prima uscita il nostro secondo CD, Vertigine. In quell’occasione riuscimmo a programmare un tour di concerti piuttosto consistente, ma a quel punto Matteo prese la decisione di smettere di suonare. Avevamo appena pubblicato un disco, e io e Lorenzo non volevamo buttare via il lavoro di quattro anni: perciò all’epoca decidemmo di continuare, cercando anzitutto un chitarrista. In questo modo conoscemmo Marco Superti, che entrò a far parte del gruppo all’inizio del 2009.

Da allora io ho iniziato ad occuparmi della parte vocale, sia come cantante che come autore di melodie e testi in italiano.

Con la formazione a tre abbiamo iniziato a lavorare a Solitari Blu, album co-prodotto con Ernesto De Pascale, e uscito nel marzo 2011: poco prima dell’uscita del CD proponemmo a Giulia Nuti, violista e tastierista, con la quale avevamo già collaborato più volte in passato, di entrare a titolo definitivo nel gruppo.

Quattro, il nuovo cd che tu hai ascoltato e recensito – a proposito… grazie! -, è frutto di un lavoro svolto in gran parte nella primavera 2012, e concretizzato in studio di registrazione nell’estate successiva.

RockShock. Relativamente alla poetica, qual è la vostra ispirazione e che corde vorreste muovere nell’ascoltatore?

GUIDO. Anzitutto le corde emozionali legate al suono, (…) alla tangibilità direi quasi “materica” del poter entrare in contatto con i nostri strumenti. Ci stiamo muovendo sempre di più in direzione di una musica suonata, jammata se vuoi, pur se ancora veicolata sotto forma di canzone.

La componente testuale ha per me grande importanza, ma soprattutto come suoni che si associano ad altri suoni: non sento la necessità di un testo “narrativo”, pur apprezzando chi, magari muovendosi in contesti musicali differenti, riesce a raccontare storie lungo un brano musicale.

(Parlando anche con Lorenzo, si è delineato il profilo di una band con una forte radice britannica, che però ha scelto di utilizzare l’italiano per -come possiamo dire?- onestà intellettuale.)

RockShock. Una delle tante lotte di quartiere è quella che muove i sostenitori del digitale contro chi predilige l’analogico. Voi fate sicuramente parte della seconda parrocchia. Vi chiedo: ha ancora un senso appoggiare la registrazione “vecchio stile” in un mondo sempre meno attento a certi aspetti, o si tratta di un atteggiamento anacronistico, legato più agli appassionati?

GUIDO: In verità devo dirti che per me digitale e analogico sono sempre stati complementari e non antitetici. Avendo uno studio di registrazione, e avendo lavorato negli anni sia con apparecchiature analogiche che digitali ho imparato ad apprezzare virtù e difetti di entrambe le soluzioni.

La scelta di registrare Quattro su nastro a 16 piste è nata anzitutto come esigenza “ludica”, per divertirci a sfidare noi stessi senza l’ausilio dell’editing digitale, del copia-incolla, del comando “Undo”.

Registrare in analogico ti costringe, per tutta una serie di motivi, a suonare in maniera molto più vicina ad un live, dove il tuo pubblico è il nastro che gira: una sensazione difficile da replicare quando registri con una workstation. Chiunque abbia registrato su nastro sa che la grande differenza col digitale è anzitutto questa.

Riguardo più specificatamente alla tua domanda, credo fermamente che per una piccola produzione sia essenziale curare a fondo i dettagli, il suono, la personalità. Siamo sommersi di cd, per non parlare della “musica liquida”, ed è difficile trovare ascoltatori: per questo motivo i pochi che ancora fanno lo sforzo di acquistare un cd vanno ripagati col massimo degli sforzi, curando il prodotto nei limiti delle proprie capacità artistiche ed economiche.

(Riguardo al digitale, mi scappa anche una riflessione sulla facilità di costruzione in studio, troppo spesso adagiata su micro-registrazioni incollate ad arte. Guido mi dà ragione, convenendo che, non sempre, ma se ci si abitua a creare prodotti che molto devono alla post-produzione, poi è difficile affrontare i live a testa alta.)

RockShock. Riguardo al vostro genere, come si presenta la scena (fan base, luoghi per suonare, collaborazioni, compensi, ecc…)?

GUIDO. Il nostro problema è forse quello di non appartenere ad un genere preciso: siamo certamente rock, talvolta ai confini del prog, della musica psichedelica, ma abbiamo anche elementi di improvvisazione che derivano da un certo jazz-rock; inoltre, fatto ormai sempre più raro tra i non-cantautori, cantiamo in italiano. Quindi certe volte siamo tagliati fuori da manifestazioni o locali che puntano a generi ben determinati.

Ad ogni modo siamo sempre riusciti a fare un numero onorevole di date, suonando la nostra musica e venendo pagati: di questi tempi lo considero decisamente un successo!

Questi ragazzi provengono da Firenze, che io conosco come terra fertile in campo musicale. La qual cosa mi viene confermata: c’è molta musica e locali che fanno suonare, per tutti i generi. Manca il pubblico.

Siamo sempre qui: la gente non spende tempo e soldi per la musica.

Lorenzo dice che è un problema culturale, una scelta a monte. Concordo con loro quando affermano che non è colpa della crisi o dei talent show: i live hanno sempre sofferto per carenza di seguito in Italia.

Guido mi confessa che lo fa arrabbiare chi dice che, anche se le vendite dei CD sono in calo, almeno ci sono i concerti. Niente di più falso: qui è tutto in recessione, da tempo.

RockShock. Personalmente conosco le motivazioni di uno della mia generazione, che ha sognato di diventare una rockstar e si è messo a suonare. A voi cosa vi ha mosso (non dico come musicisti maturi, ma agli albori della vostra carriera)?

GUIDO. (…) Penso che chiunque abbia messo su un gruppo, negli anni sessanta come oggi, sia stato mosso inizialmente dal desiderio di stare su palchi importanti, di veicolare la propria musica con dischi, di trascorrere ore in studio di registrazione, a provare, a comporre. La componente economica è un fattore collegato, ma non la motivazione che ti spinge verso questo mondo.

Poi col tempo ti rendi conto che la realtà delle cose è piuttosto differente, ma se capisci che la musica, in tutte le sue accezioni, è una componente essenziale della tua vita l’unica cosa è darsi da fare e continuare a suonare e a portare avanti progetti.

RockShock. Parliamo delle scelte legate allo stile vocale e ai testi. C’è uno studio o semplicemente si è seguito un gusto personale, legato ad un preciso genere?

GUIDO: Come ti ho detto riguardo alla poetica, l’intento è quello di muoversi lungo un testo e una vocalità che facciano il gioco della parte musicale, piuttosto che il contrario.

In questo ci sentiamo affini a gruppi, penso ai Verdena, che utilizzano la lingua italiana su matrici musicali di chiara derivazione anglosassone.

Per quanto riguarda più strettamente la vocalità, a me piacciono i cantanti “puri”, come potrebbe essere un Robert Plant o, se vogliamo, un Thom Yorke, ma allo stesso tempo sono sempre stato affascinato da chi, probabilmente perché conscio dei propri limiti come cantante, riesce comunque a trasmettere altrettanta emozione: per esempio Roger Waters, George Harrison o, guardando in Italia, la prima PFM.

Il batterista che incarna un modello di riferimento per Lorenzo è Ringo Starr, essendo i Beatles la matrice per tutta la musica british degli ultimi 50 anni.

Lorenzo è anche il creatore della copertina dell’album Quattro, che io ho erroneamente attribuito a Gianfranco Chiavacci (autore della copertina del precedente disco). Sue anche le foto interne del libretto.

Chiudiamo con i prossimi progetti: un videoclip da girare quest’estate (non siamo riusciti però a farci dire qual è la canzone in ballo) e un tour che partirà in autunno.

Buon viaggio e buona fortuna Underfloor, speriamo che questo autunno sia per voi una lunga estate indiana.

 

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