Liars + Fol Chen: Roma, Init, 13 maggio 2010, recensione concerto

Nonostante i relativi cambi di rotta, i Liars regalano al pubblico il solito show impeccabile

Liars + Fol Chen

Roma, Init, 13 maggio 2010

live report

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Dopo tre anni torno a vedermi i Liars all’Init Club di Roma. Era il 2007, quando i nostri sfornavano l’ultimo (ora penultimo) album – omonimo – della loro oramai decennale carriera. L’impressione lasciatami da quel live fu senza alcun dubbio ottima, considerando che, pur avendo la band appena pubblicato allora un Liars ammiccante alla melodia, per direzioni forse antitetiche rispetto a quelle delle opere precedenti, l’influenza sinistra gravosa e austera di Drum’s not Dead era ancora evidente – oltre che per l’importante sua presenza in scaletta – per modalità espressive, ad essa legate, deliberatamente in primo piano.

Senonché questo 2010 ha visto la pubblicazione del nuovissimo Sisterworld, a segnare cioè un nuovo sincretismo fra configurazioni idee e metodi, latenti (o meno) su vari livelli lungo l’asse temporale della produzione Liars. A cosa puntano or ora, dunque? Uhm… Sembrerebbe che con quest’ultima opera abbian voluto indirizzare il tipo di sperimentazione fin qui caratteristico della loro vena (creativa) all’interno di topoi più mainstream – con tutti i vantaggi e le mortificazioni che ne conseguono.

Innanzitutto, prima della loro esibizione c’erano i Fol Chen: band di Los Angeles indie-pop, che non conoscevo prima del 13, e che ascoltando per rete con disattenzione – prima del concerto – m’aveva fatto sinceramente un po’ pena. Mi sono dovuto ricredere cinque minuti dopo l’inizio del live. Effettivamente l’ensemble, vestito con tanto di divisa in-tutina-rossa, che odiavo, ha mostrato un’abilità un po’ ruffiana ma del tutto particolare/unica nell’edificazione di “canzoncine” alt-pop dalle melodie eccentriche e sconnesse (dalla realtà) rivelatrici di un estro contrario a quello da me osservato sul maledetto youtube.

Ognuno pregnante a modo proprio, si mettevan in luce il batterista per una percussività incazzosa talvolta prevaricante su gli altri; la tastierista, bella sì, almeno da lontano, per un’aria svagata che raggiungeva immediatamente la prassi esecutiva – e che sbagliava, in video, quando m’avevano fatto schifo; poi c’era uno-che-suonava-la-tromba, bravissimo, e il leader chitarrista (possibile non mi ricordi di un quinto?), uhm… sìì… non male a sfangarsela.

Ma la cosa che più m’ha colpito è stato vedere quest’ultimi due accanto ai Liars, sul palco. Lì ho realizzato che un motivo ci doveva pur essere. E minchia se non c’era! A riprova delle loro doti strumentali s’infilavano fra i solchi alla chetichella e, per certi versi, amministravano con precisione chirurgica l’ambaradan post-punk/no wave ed ora anche indie-pop del conclamato marchio di fabbrica.

Ma è chiaro che il mattatore resta(va) pur sempre lui, Angus Andrew. Varie anime a questo punto visita(va)no il suo istrionismo, fra cui quella da me giammai notata di Jim Morrison. (Mentre, nel complesso, si facevano sempre più strada i Radiohead).

Che dire? M’erano piaciuti più tre anni fa, forse anche perché più freschi, considerando il dilagare attuale di tutto ciò che è out (che è comunque una contraddizione in termini). Ma non si può contemporaneamente negare la capacità della band nel trascinare vorticosamente il pubblico verso tutte quelle tendenze una volta devianti, ora addomesticate deliziosamente ad arte ed esibite con la stessa foga/passione di sempre per la gioia degli intellettuali, dei radical chic, dei pogatori e del formato canzone (standard?).

Meno speranzosi di prima, continueremo ad amarli.

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