The Cure – Disintegration. Una favola dark

Oltre quattrocento pagine, belle foto in bianco e nero, una dettagliatissima discografia. Tutti gli incubi di Robert Smith e compagni in questa aggiornata e completa biografia su una delle band che ha segnato la storia del rock

Jeff Apter

The Cure – Disintegration. Una favola dark

(Libro, Arcana, 2006)


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Il titolo originale (Never Enough. The Story of the Cure), sicuramente meno romantico rispetto alla sua traduzione italiana, è quello che però rispecchia al meglio la storia e l’evoluzione di questi Three Imaginary Boys (almeno in principio), partiti dalla provincia inglese senza alcuna velleità artistica, con in testa invece “…un solo obiettivo: non dover lavorare…”.

Non se ne ha mai abbastanza dei Cure ed anche Robert Smith, nonostante le sue continue e puntuali dichiarazioni in merito alla loro fine, riproposte ad ogni uscita di album, sembra non essere assolutamente intenzionato a mettere sotto naftalina quel brand ormai storico e lanciarsi nella più volte invocata carriera solista.

Quindi, in attesa del prossimo, ennesimo album, previsto nel corso del 2007 (e realizzato con un’ennesima nuova formazione, dopo l’allontanamento dell’ex roadie Parry Bamonte e del tastierista Roger O’Donnell, lui sì, ormai pronto all’esordio solista), immergiamoci anima e corpo in questa straordinaria favola dark, nera come il peccato fin dalla copertina, alla scoperta di ciò che è stato, per cercare di capire come una band nata con il solo scopo di “…non doversi alzare presto la mattina…” sia diventata un fenomeno di culto in tutto il mondo, segnando mode e tendenze, rivoluzionando l’iconografia rock con l’ormai leggendario rossetto sbaffato e con quelle capigliature post-punk, così improbabili ed infinite.

In oltre quattrocento pagine, corredate da bellissime foto in bianco e nero e da una dettagliatissima discografia (album, singoli, ep, compilation e box, collaborazioni, colonne sonore, tributi, cover, videoclip, dvd e vhs, siti Internet), Jeff Apter, collaboratore alla rivista GQ e già autore di una biografia sui Red Hot Chili Peppers, ci propone il molteplice punto di vista di chi, in un modo o nell’altro, con l’universo Cure ci è entrato in contatto. Non solo, quindi, dichiarazioni Smith-centriche, ma largo spazio anche a Laurence “Lol” Tolhurst, co-fondatore e compagno di bisbocce fino a Disintegration (1989), agli altri membri della band e a Chris Parry, lo storico produttore australiano che lanciò i Cure nell’olimpo della gloria e, se vogliamo, della disperazione.

Come nella precedente biografia “Ten Imaginary Year”, pubblicata dalla Fiction nel 1988, alla quale il libro fa spesso e volentieri riferimento, anche qui ci si sofferma maggiormente sulla prima parte della storia delle band Obelisk-Malice-Easy Cure-The Cure (1973-1989), relegando i successivi quindici anni (1990-2005) nelle settanta pagine conclusive. E forse è proprio questo il limite del libro.

Procedendo cronologicamente, pescando a caso tra le righe dei dodici capitoli che lo compongono, è interessante sottolineare le ossessioni giovanili che hanno segnato il periodo “pre Cure” di Robert Smith (i fumetti, i cartoni animati, Peter Pan, Alice nel paese delle meraviglie, il terrore di ragni e specchi, l’ambiente cattolico nel quale è cresciuto, l’innamoramento per Hendrix e Nick Drake dovuto al fratello Richard, e quello per i Beatles e i Rolling Stones dovuto alla sorella Margareth, la folgorazione per le trasformazioni stravaganti di David Bowie, l’adorazione per il precursore del movimento punk inglese Alex Harvey e per gli esistenzialisti francesi, soprattutto Jean-Paul Sartre e Albert Camus); il primo contratto con l’etichetta tedesca Hansa e la delusione (con)seguente; la lavorazione di Faith segnata da disperazione e lutti (la madre di Tolhurst, la nonna di Smith e un familiare di Gallup); i continui riferimenti letterari sparsi nei brani (tra gli altri, All Cats Are Grey fa riferimento a “Gormenghast”, una trilogia di romanzi gotici pubblicati in Inghilterra tra il 1946 e il 1959, Other Voices è tratta da “Altre Voci, altre stanze” di Truman Capote, Killing An Arab da “Lo straniero” di Albert Camus, M da “La morte felice” di Albert Camus, At Night è ispirata a Franz Kafka, Charlotte Sometimes al libro omonimo di Penelope Farmer, Splintered In Her Head è una frase contenuta sempre nel libro della Farmer, Bananafishbones è ispirata a “Un giorno ideale per i pescibanana” di J.D. Salinger, How Beautiful You Are è un adattamento di un racconto di Baudelaire, A Letter To Elise si nutre delle suggestioni di “I ragazzi terribili” di Jean Cocteau e di “Lettere a Felice” di Frank Kafka).

E ancora, procedendo nella lettura, si resta coinvolti e tramortiti dalla tribolata uscita di Pornography, con la conseguente fine dei Cure; dai progetti paralleli di Smith (con Siouxsie e con Steve Severin con cui forma i Glove) e Tolhurst, il quale si dedica alla prima esperienza da produttore con And Also The Trees; dalla volontà di distruggere l’immagine dark e ricominciare con i Cure; dalla successiva e decisiva svolta pop con i singoli Let’s Go To Bed, The Walk, The Lovecats (ispirata agli Aristogatti), The Caterpillar; dal ruolo di Lol Tolhurst sempre più limitato a causa dell’alcolismo e dal rientro di Gallup dopo diciotto mesi di silenzio tra lui e Smith; dai primi grandi successi (The Head On The Door, 250mila copie in Usa); dalla consacrazione a star planetarie; dal biennio d’oro 1985-86 e dal nuovo boom con Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me (disco d’oro in Usa 3 mesi dopo l’uscita, e conseguente disco di platino tre anni dopo); dalla fuga dal successo e dall’incapacità di gestire le pressioni dell’ambiente; dalla deriva acida di Smith, in crisi esistenziale alla soglia dei 30 anni; dalla fine dolorosa del rapporto con Lol Tolhurst, ormai alcolista perso; dal trionfo clamoroso di Disintegration (milioni di copie vendute) che porta Smith ad affermare, sconsolato: “A quel punto ho capito che, malgrado tutti i miei sforzi, eravamo davvero diventati quello che non avremmo voluto: un gruppo rock da stadio”.

Insomma, una full immersion profonda e senza paracadute negli incubi e nella desolazione di una band che, comunque sia, è ancora lì dopo circa trent’anni di, più o meno, onorata carriera. E non è poco. A questo punto è lecito chiedersi: quale sarà il futuro dei Cure? A tal proposito il solito, ineffabile Smith ha dichiarato: “Quasi sicuramente nel 2011 non mi vestirò di nero e non mi metterò il rossetto. Questo è certo”. Considerate le sue proverbiali contraddizioni ed il suo rapporto conflittuale con la stampa, anche quest’ultima affermazione aspetta solo di essere smentita dai fatti.

In conclusione, un po’ di gossip e alcune considerazioni personali: Lovesong fu il regalo di matrimonio di Smith alla moglie Mary Poole, la quale, guardando con attenzione, compare nel video di Just Like Heaven, girato sulla scogliera di Beachy Head, la stessa dalla quale precipita l’armadio con i Cure dentro nel video di Close To Me. L’idea dell’armadio, tra l’altro, era stata di Smith che la voleva come foto di copertina per il singolo. Tim Pope, il regista, la ritenne un’idea “sprecata” per il disco e la sfruttò invece per il video.

Personalmente, i migliori Cure di sempre sono Smith-Gallup-Williams-Thompson-O’Donnell, in pratica quelli che compaiono su Disintegration (il loro capolavoro, composto da Smith all’età di 30 anni!), con l’esclusione di Lol Tolhurst, che solo per grazia ricevuta dallo stesso Smith fu “omaggiato” della dicitura “other instrument” nei credits del disco, anche se in realtà non fece praticamente nulla. La canzone più bella in assoluto è M (il nomignolo con cui chiama(va) la sua amata Mary Poole).

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