Angela Baraldi: Tornano Sempre

Il nuovo lavoro solista di Angela Baraldi si chiama Tornano Sempre: rock caparbio e (r)esistente che sa far male, ma anche donare sollievo

Angela Baraldi

Tornano Sempre

(Woodworm/Audioglobe)

canzone d’autore, rock d’autore, indie

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Angela-Baraldi-Tornano-sempre-recensioneGaleotto fu il progetto “Love tore us apart”, l’atipico omaggio alle canzoni dei Joy Division messo in piedi con Giorgio Canali e Stewie Dal Col. È da quell’incontro, infatti, che l’ottavo album della bolognese Angela Baraldi ha cominciato il suo lento concepimento, vedendo la luce dopo un’incubazione durata circa cinque anni.

Tornano Sempre – questo il nome scelto per il nascituro – oltre alle chitarre, ai bassi, alle tastiere, all’ostinazione e ad un altro bel po’ di robe indispensabili sparse a piene mani dai già citati Canali (qui in veste anche di produttore) e Dal Col, contiene al suo interno batterie, percussioni, groove e pazienza di Vittoria Burattini, già con i Massimo Volume, nonché gli importanti e significativi contributi di Vincenzo Vasi al theremin, campionamenti e sifoni vari, Riccardo Dal Col alla batteria e violenza, Emanuele Reverberi ai violini tossici e rumori di fondo e sua maestà Gianni Maroccolo al basso ed alle atmosfere plananti.

Le dieci tracce di cui è composto sono il risultato di una sorta di unica, lunghissima improvvisazione a microfono aperto, decadente e morbosa, dolente e sospesa, in grado di appiccicarsi addosso all’anima fin dall’apertura malinconica e struggente di Michimaus.

I testi della Baraldi, aggiunti in un secondo momento, donano senso e spessore alla musica, soffermandosi sull’indifferenza che permea la nostra società occidentale, sulla parabola triste della vita bugiarda degli eroi fragili made in Hollywood; sulla bella gioventù interrotta troppo presto dalla violenza della legge, sulla felicità come obbligo sociale, sull’onirico dualismo tra un mondo tecnologico e disumanizzato ed un naturale bisogno di affinità elettive, sull’eterna follia della guerra.

Poco più di quaranta minuti di rock caparbio e (r)esistente, che sa scegliersi la parte all’interno di un mercato musicale anestetizzato da talent, contest e fufferia varia. Che sa far male, ma anche donare sollievo, che ci fa credere che non tutto è andato ancora perduto, che ci restituisce un’artista completa e straordinariamente brava, dotata di una voce ruvida e potente, capace di passare indifferentemente dal cinema – tra gli altri, ha recitato per Giuseppe Bertolucci, Gabriele Salvatores, Guido Chiesa – alla tv, al teatro, alla musica, con la naturalezza propria solo dei grandi.

Chapeau.

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Ivan Masciovecchio
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