Intervista agli Omosumo

In occasione del tour che toccherà il 19 novembre il Locomotiv di Bologna, scambiamo due chiacchiere con Angelo Sicurella degli Omosumo sul loro album d'esordio Surfin' Gaza

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Omosumo-0Freschi di uscita con il loro primo album Surfin’ Gaza, arriveranno mercoledì 19 novembre al Locomotiv di Bologna, gli Omosumo. Per l’occasione, parliamo dell’album e di altro con Angelo Sicurella, voce e synth del trio, composto inoltre da Roberto Cammarata (chitarra e voce, già nei Waines) e Antonio Di Martino (basso e voce, già solista col progetto Dimartino).

RockShock: Ciao ragazzi, è passato solo un anno dal vostro primo ep ma sembra sia passato un secolo confrontando i due lavori…

Angelo Sicurella (Omosumo): Ciao, l’ep “Ci proveremo a non farci male” è uscito nel 2013. E’ vero, è passato solo un anno da quella produzione ma tra ascolti e viaggi che puntano la bussola a oriente e in Africa abbiamo pensato bene di voler andare verso quello che più ci ispirava in quel momento. Così, dopo due sessioni di scrittura, una dispersa nelle campagne del centro terra siculo e un’altra nel cuore di Palermo, è venuto fuori Surfin’Gaza.

RS: Il vostro sound è mutato parecchio, ha abbandonato le incursioni in un desert rock dalle forti tinte blues e soul dell’ep di esordio ed è giunto ad un sound metropolitano, molto attuale, pieno di elettronica ma con molta anima. E’ stato un passaggio naturale o avete cercato appositamente questo suono marcatamente internazionale?

AS: Il sound dell’Ep era frenetico, stridulo, estremo per certi versi. Sentivamo di voler dire le cose in altro modo a questo giro. Lo sentiamo come un passaggio naturale; si fanno delle esperienze che in qualche modo ti condizionano (siamo stati in Marocco, abbiamo suonato con un po’ di musicisti a Marrakech e più a sud, nel deserto, dopo Zagora). Un anno è possibile ti cambi, soprattutto se hai modo di confrontarti con altri mondi musicali. Credo che il viaggio in Marocco abbia fatto tanto in questo senso. Così come la voglia di esplorare altri orizzonti musicali rispetto a quello che abbiamo prodotto un anno prima.

RS: Il titolo del vostro primo album è Surfin’ Gaza. Come vi siete ispirati nella stesura di questo lavoro? E’ stata un’esperienza diretta che avete avuto a Gaza?

AS: No, non siamo mai stati a Gaza, anche se ci piacerebbe andarci. Avevamo fatto delle prime stesure strumentali che erano delle vere e proprie desert sessions. Poi, parlando e tirando fuori concetti, in merito a quello di cui volevamo parlare, è venuto fuori l’argomento Surf Club di Gaza. Palestinesi e israeliani che surfano insieme, vedendo il mare come un porto franco da problematiche di tipo sociale o religioso o politico. Ci è sembrato una cosa interessante di cui parlare, su cui farci proprio un disco, che tra l’altro ha come tema fondamentale l’abbandono. Un abbandono che non ha un’accezione negativa né positiva, quasi privo di polarità, se non la voglia stessa dell’abbandono consapevole come possibilità di esplorare altre terre e altri orizzonti.

RS: Sembra che di questi tempi più che il sociale sia usuale la virtualità dei social. Quanto pensate ci sia bisogno oggigiorno di contesti in cui si affrontano tematiche sociali?

AS: Oggi siamo in una dimensione in cui a tutti è possibile dire di tutto su tutto. Non so questo quanto sia utile o opportuno, ma di fatto è. Non so dirti quanto davvero ci sia bisogno, credo che quello a cui assistiamo come fenomeno virtuale è più o meno il risultato di una matassa assai imbrogliata di dinamiche all’interno di un paio di generazioni di passaggio come la nostra, nostalgica a volte del passato e desiderosa di una terra ferma che non si vede neanche all’orizzonte. Per cui, parlare in questo senso della necessità di trattare delle tematiche, ormai ha un senso quanto mai individuale. Sia per chi trae ispirazione da questo genere di tematiche, sia per chi ne fruisce.

RS: Il primo brano che ho ascoltato dal nuovo lavoro è stato Nowhere che avevo apprezzato tantissimo, poi ero rimasto spiazzato, pur piacendomi, dalle sonorità molto indie di Nancy. Una volta avuto l’album sono letteralmente rimasto piacevolmente sconvolto da Ahimana che suona come i Chemical Brothers intrisi di acido lisergico. Avete fatto un gran lavoro di equipe o ognuno di voi ha spinto verso diverse direzioni a seconda dei propri ascolti o suoni prediletti?

Fortunatamente godiamo di una sintonia mentale e musicale che il lavoro di equipe ci è veramente naturale. E se qualcuno in un determinato momento di scrittura tira fuori un giro, c’è un altro di noi che incolla su quel giro un riff o un cantato che si sposa con quella direzione e con il senso di quelle cose lì. Anche i suoni spesso li indaghiamo insieme.

RS: La Sicilia ha sempre più fermento musicale. Togliendo artisti del calibro di Carmen Consoli o Battiato ha comunque negli ultimi anni portato sulla scena tantissimi artisti. Penso a Unepassante, Il Pan Del Diavolo, Colapesce, poi entrando nella vostra “famiglia” Fabrizio Cammarata & The Second Grace, Waines, Dimartino (che adesso è uno degli Omosumo). Altri artisti stranieri come Terje Nordgarden e Erlend Oye che ora abitano in Sicilia. E tanti altri che avrò sicuramente dimenticato. Qual è il segreto siciliano di tanta prolificità?

AS: Probabilmente il fatto che sia una terra in cui manca parecchio. Sembrerebbe retorico dire che certe cose vengono fuori dalla fame. Invero penso che per certi versi sia così.

RS: Cosa ci si deve aspettare dal vostro live che ricordo, toccherà mercoledì sera il Locomotiv Club di Bologna?

AS: È una domanda che volentieri girerei a te. Fare un live può essere come alzare su un altare per dire una messa. Ogni volta non è mai uguale a quello precedente. È bello quando c’è la voglia di stare insieme e di condividere questo scambio reciproco che accade quando si fa musica, sia per chi è sul palco, sia per chi assiste e partecipa attivamente all’evento. Il live è un discorso, un excursus ecco, in cui ambedue le parti hanno merito.

RS: Vi ringrazio per la vostra disponibilità. A presto

AS: Grazie a te, a presto.

 

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Fabio Busi
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