Duran Duran live @ Summer Arena Assago (Milano): la recensione del concerto

A dispetto della promozione del nuovo album, i Duran Duran hanno messo in scena un concerto che è un vero e proprio greatest hits; una semplice operazione nostalgia? Forse, sicuramente un vero e proprio bigino del pop in tutte le sue forme

Duran Duran

12 giugno 2016, Summer Arena, Assago, Milano

live report

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recensione-concerto-duran-duran-2016Come ho scoperto i Duran Duran? Con il “bop bop bop bop bop” di Planet Earth che adoravo ascoltare e riascoltare dalla cassetta di Arena, letteralmente consumata nel walkman, mentre me ne stavo sdraiato sul pavimento di marmo della mia vecchia casa al mare a raffreddare le prime cotte esplose proprio in quel periodo dalla mia sacca degli ormoni.

E il 2 giugno 1987, quando si esibirono nella mia città in quello che era il glorioso stadio Flaminio e che oggi è uno dei tanti scheleton assurti a simbolo del decadentismo e del menefreghismo che impera ben oltre le palazzine borghesi dei Parioli, io era a casa a guardare con le lacrime agli occhi un mio amichetto giocare con il Commodore 64. E mentre lui muoveva l’enorme joystick a forma di cloche, gli omini a quadrettoni che correvano dentro il televisore avevano i volti di Simon Le Bon, John Taylor e Nick Rhodes.

Forse nessuno avrebbe mai detto che trent’anni dopo quei bellocci britannici avrebbero illuminato ancora le notti italiche, soprattutto coloro che snobbavano le ragazzine urlanti di quella che pareva essere una nuova beatlemania, ossia gli stessi che hanno guadagnato palate di vecchie lire ciarlando di un presunto dualismo con gli Spandau Ballet che oggi troverebbe posto solo sui giornaletti di gossip. Ossia su qualsiasi giornale, lo stavate pensando vero?

Ma bando alle ciance, appunto. Dopo le esibizioni di Taormina, Roma e Verona, stasera il proscenio è la Summer Arena di Assago.

Si inizia con la title-track dell’ultimo Paper Gods, la cui ispirazione lirica è a livelli molto alti, Bleeding from paper cuts, money for head shots” corre su un doppio binario che meriterebbe qualche rinnovato gridolino.

I membri della band sono tutti in forma, solo Simon sembra un po’ appesantito ma, diciamoci la verità, non è mai stato un animale da palcoscenico.

The Wild Boys ci ripiomba di botto negli Eighties, ma non è forse per questo che siamo venuti qui stasera?, e immediatamente dopo ecco una delle mie preferite, “Avete mangiato la pasta stasera?”, Hungry Like The Wolf.

 

Non c’è neanche il tempo di riprendere fiato perché già parte A View To A Kill che, apprendo da Wikipedia, è l’unica canzone dell’intera serie dei film di James Bond ad aver raggiunto la prima posizione nella Billboard Hot 100.

E dopo la bella Come Undone, che riassaggia i primi Novanta, si tira un attimo il fiato con altri due pezzi dall’ultimo lavoro, Last Night In The City e What Are The Chances.

E qui, tra i solchi di una scaletta ben più da greatest hits che non da promozione, si potrebbe aprire una parentesi interessante per parafrasare Le Bon e Red Ronnie sul come, nell’epoca in cui “tutti gli idioti in città sono al potere”, dopo quarant’anni di carriera la boy-band per ragazzini sciocchi dal successo passeggero da sfruttare subito subito prima che si dissolva ha sfornato un quattordicesimo album in studio che se lo avessero firmato i Dear Jack avrebbero fatto suonare a festa le campane di San Pietro. E invece, anche se non è una questione di tempo, purtroppo non ne hanno avuto il tempo, perché hanno dovuto lasciare spazio ai The Kolors. Avanti un altro! E così, gira che ti rigira, l’intellighenzia continua a proclamare dai suoi modernissimi hot-spot, i dei di carta continuano a farsi staccare la testa, e noi continuiamo a essere noi.

“No-No-Notorious-Notorious”.

Azz, sembra quasi che la set-list sia stata serigrafata sopra il mio testo!

Pressure Off è il loro ultimo anthem, quello che fa brand, in ogni senso, e probabilmente il pezzo pop più azzeccato dell’ultimo decennio, almeno.

E poi, finalmente, la mia Planet Earth chiusa in medley dalla vibrante Space Oddity, “Inizia il conto alla rovescia, avvia i motori, controlla l’accensione, e che Dio sia con te”.

Ordinary World si conferma essere il pezzo più universale dei Duran Duran che, dopo I Don’t Want Your Love e un medley con (Reach Up For The) Sunrise e New Moon On Monday, ci conduce alla sempre-verdissima The Reflex e a Girls On Film che fa esplodere l’audience e i click delle vecchie Nikon a rullino (a mero uso e consumo dei più giovani che mi leggono: i rullini erano dei piccoli cilindri di plastica che contenevano il codice genetico di Photoshop, rubati dagli alieni al Maggiore Tom e portati fuori dall’atmosfera, ndr).

Si spengono le luci ma è solo una finta.

Il primo encore è Save A Prayer ed è da brividi.

Poi, dopo due ore di sano intrattenimento, si chiude in festa con Rio e tutti continuano a ballare anche mentre raggiungono a piedi i parcheggi lungo la tangenziale Ovest.

Simon Le Bon non è un gran cantante ed è uno dei miei cantanti preferiti perché ha una voce che trovo irresistibile, utilizzata deliziosamente male, ancor di più stasera che l’aveva dimenticata in hotel. È goffo e magnetico, se cantasse Tu Scendi Dalle Stelle rimarrei incantato ad ascoltarlo, giuro. La sua cover di Perfect Day di Lou Reed rimarrà impareggiata per sempre, peccato non l’abbiano buttata dentro a questa gig di inizio estate. E poi il suo look è fighissimo. Per non parlare di Nick Rhodes, anche lui sempre un passo avanti anche se ne rimane tre indietro, è il vero carburatore che lavora di fino. John Taylor invece non mi ha mai affascinato più di tanto, ho perfino lasciato a metà la sua autobiografia uscita qualche anno fa per Arcana.

Quando la Summer Arena si svuota, dall’alto della torre di controllo la desolazione è nuda sotto le luci dei lampioni che incorniciano la spianata lastricata dai resti del passaggio di un’umanità superstite.

“Guarda ora, guardati intorno, non c’è segno di vita. Voci, un altro suono, puoi sentirmi adesso? Qui è il Pianeta Terra, stai guardando il pianeta Terra, bop bop bop bop bop”.

 

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