Björk: Vulnicura

Le canzoni di Vulnicura, il nuovo album di Björk, sono e-pistole sparate nell’etere con la forza dirompente del crack di un tuono

Björk

Vulnicura

(Carosello Records)

pop, experimental

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bjork recensione vulnicuraQuando un artista diventa introspettivo le cose cambiano. Imbraccia la chitarra, si siede al pianoforte, inizia a pigiare i tasti e a scarabocchiare quello che sente su un pentagramma sghembo. E sente dolore.

Quel bloc-notes impiastrato se lo porta ovunque, al bagno, al cinema, a una festa di compleanno o alla contemplazione ascetica di un tramonto, e poi continua a macchiarlo al tavolino di Starbucks.

Per chi ascolta è come leggere un’autobiografia e interrogarsi sul perché un aneddoto ci è finito dentro e un altro no. L’ispirazione. Da dov’è che proviene? Dalla sofferenza, dalla felicità, da qualsiasi altra cosa nel mezzo. Già, l’ispirazione, brutta bestia da domare.

E poi, chissà perché, quando un artista diventa introspettivo si trasforma immancabilmente in un naturista sonoro. I brani si spogliano di tutto il superfluo, gli arrangiamenti si fanno scarni, crudi. Si torna all’essenza. Anzi, ci si rimane. Lo ha fatto Springsteen in un paio di album, lo fa Dylan da una vita, lo hanno fatto alcuni altri e adesso alla mailing list si è iscritta anche Björk.

Le demo sono embrioni che, in utero, sono nati prematuri, spinti al mondo da una forza propulsiva inarrestabile. Le canzoni di Vulnicura sono e-pistole sparate nell’etere con la forza dirompente del crack di un tuono.

Björk ha arrangiato da sola gli archi che, insieme alla voce e alla batteria elettronica, sono gli unici elementi sonori che vestono i suoi rigurgiti creativi. Le parole sofferte, ventilate da una voce struggente, ci portano dentro la rottura della sua storia con l’artista Matthew Barney fino al punto da farci sentire intrusi incomodi. Sono frasi semplici che disegnano stati d’animo complessi, scritte a mano con una calligrafia incerta e tremolante. E’ un disco tormentato, difficile da ascoltare, monocorde, cupo. E’ un viaggio che porta la cantante islandese ad esorcizzare la propria sofferenza personale mortificando la sua privacy incurante del pubblico ludibrio. Non ci sono pezzi radiofonici, l’andamento è strappato, sincopato, inesorabilmente intrappolato in una monotonia pseudo liturgica.

Bene il coraggio e l’efficacia comunicativa. Ma, per questo genere di musica, bisogna essere predisposti geneticamente. Oppure, unica altra possibilità, quella di rimanere folgorati. E iniziare ad amare follemente la pubblicità tra un pezzo di talent show e l’altro.

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